Elie Wiesel legge la Bibbia e giudica il nostro tempo.
Testata: La Stampa Data: 24 ottobre 2003 Pagina: 27 Autore: Paolo Mastrolilli Titolo: «O la Bibbia o i sondaggi»
La Stampa pubblica una intervista con Elie Wiesel di Paolo Mastrolilli. La pubblichiamo perchè la riteniamo di interesse per i nostri lettori. ABBIAMO perso la parola, in mezzo al chiasso mediatico. Viviamo nell'era della comunicazione globale e possediamo i mezzi più sofisticati per dialogare, ma non sappiamo più riempire le nostre parole di significati. Perciò Elie Wiesel, scrittore e premio Nobel per la pace, è tornato alle scritture fondanti della cultura giudaico-cristiana, la Bibbia, il Talmud, i maestri Hasidic, per trovare i temi del suo ultimo libro. Si intitola Wise Men and Their Tales, cioè uomini saggi e le loro storie, ed è la collezione di domande con cui un essere umano curioso prova a comprendere i meccanismi e le ragioni della comunicazione tra Dio e le sue creature. Lei scrive di personaggi come Abramo e Mosè, che sono stati punti di riferimento per miliardi di persone in migliaia di anni. Eppure sono tutti uomini pieni di difetti: perché abbiamo scelto dei modelli così limitati? «Ambire alla perfezione divina era impossibile. Nella nostra tradizione, invece, essere profondamente umani vuol dire anche essere santi. I loro difetti, poi, dimostrano a tutti che possiamo superare i nostri limiti». Lei mostra comprensione per i loro errori, dalla moglie di Lot che si gira a guardare la distruzione di Sodoma e diventa una statua, a Sansone che sarà pure un donnaiolo, ma è anche il primo e più efficace «agente segreto» del popolo ebraico. Perché tanta simpatia per chi sbaglia? «Sono comportamenti più naturali. Era ovvio per una madre voltarsi a guardare la fine dei suoi figli; piuttosto è incomprensibile e inumano Lot, che obbedisce e non lo fa. Sua moglie così diventa il simbolo della memoria, un elemento essenziale della nostra esistenza». La questione della memoria è particolarmente importante per tutti i sopravvissuti dell'Olocausto come lei. C'è il rischio di perderla? «Senza dubbio. Basta notare che un attore, come è successo, può salire sul palco a ritirare un premio e ringraziare Hitler, perché è risultato cosè divertente nel suo spettacolo. La trivializzazione, la commercializzazione, sono tutte minacce che minano la nostra memoria. Prendono un concetto unico legato ad un evento unico e lo degradano, fino a farne un episodio come tanti altri». Parlando di Abramo, Isacco e Ismaele, lei scrive che se non fosse stato per lui, il figlio della schiava Hagar, forse non avremmo avuto il conflitto tra ebrei e arabi. «E' vero, perché Ismaele è riconosciuto dai musulmani come un loro fondatore. Se avesse avuto un rapporto diverso con Isacco, forse anche la storia sarebbe cambiata». Vuol dire che già nella Bibbia esiste un senso di inevitabilità del conflitto? «Non mi spingerei così lontano. Sono passati molti secoli, e adesso le ragioni dello scontro stanno nella politica e nell'economia, ancora più che nella religione». Eppure, alla fine della storia, Ismaele ritorna per presenziare al funerale del padre Abramo: possiamo leggerci l'inevitabilità biblica della riconciliazione? «Dobbiamo. E' troppo pericoloso permettere a dei kamikaze non solo di distruggere un processo di pace come quello in Medio Oriente, ma di minacciare il mondo intero. Perché la violenza terroristica degli ultimi anni non riguarda solo gli ebrei, ma è un piano globale». Abramo e Mosè erano riconosciuti come profeti anche dai musulmani, e migliaia di anni fa rappresentavano un punto di contatto tra le nostre culture: cosa è successo nel frattempo, che ci ha portato a discutere di scontro tra le civiltà? «Nessuno lo sa. Perché proprio ora? Avete sentito il presidente della Malaysia? Durante la conferenza dei paesi islamici ha lanciato in pratica un appello a spazzare via gli ebrei. Come si fa a dire una cosa simile? Io penso che la questione ebraica sia un pretesto usato dagli estremisti: in fondo l'11 settembre non aveva molto a che vedere con Israele, ma soprattutto con gli Stati Uniti e l'Arabia Saudita. Piuttosto ho la sensazione che l'odio di oggi sia un'altra ricaduta dell'odio della Seconda Guerra Mondiale, con tante conseguenze anche sul piano sociale, da avere ancora un fall out nucleare nel fanatismo e nell'odio. Uno degli ultimi attentati a Gerusalemme è stato compiuto dall’imam di Hebron, un padre di famiglia che si è ucciso per uccidere. Perché lo ha fatto? Per essere un esempio. E perché tutto questo odio? Non lo capisco. Ci saranno molti elementi, dalla povertà alla disperazione. Ma l'odio è la soluzione più facile ai problemi, semplifica tutto. Chi odia sa perfettamente cosa fare: l'odio è un'ossessione che accieca tutti, assassini e vittime». Condivide l'idea dello scontro fra le civiltà? «No, la considero una generalizzazione. Tra le motivazioni del fanatismo c'è tutto: politica, economia, filosofia, oltre che religione. Ogni cosa sembra spingere verso il fanatismo. Non so come sia possibile combatterlo, ma so che qualunque sia la risposta, l'istruzione e l'educazione dovranno esserne una componente fondamentale». Raccontando la storia di Esau e Ietro, lei dice che bisogna capire la violenza presente nella Bibbia, perché essa caratterizza tutti i momenti in cui comincia qualcosa di nuovo e si passa dal vecchio ordine al successivo. Oggi viviamo in un'epoca violenta perché stiamo attraversando un'altra fase di cambiamento? «La violenza viene quando perdiamo il nostro linguaggio, ed essa diventa il linguaggio. Oggi c'è un fallimento della comunicazione: parliamo in continuazione, ma non sappiamo cosa dire. Dovremmo riunire i popoli e le nazioni per farli dialogare: forse questo scambio continuo allontanerebbe la violenza». E cosa dovremmo dirci? «Che l'odio è contagioso. Perché quando una persona odia, ce l'ha con tutti e con se stesso, e trasmette questo sentimento negativo a chiunque ne diventi oggetto. Se potessimo trovare le parole giuste, molte catastrofi sarebbero evitabili. Ma noi cerchiamo sempre la soluzione più facile. Non abbiamo più la pazienza di pensare e ragionare. Tutto deve essere istantaneo: gratificazione istantanea, filosofia istantanea». Raccontando la storia di Isaia, lei scrive che quando pensiamo alla pace, pensiamo a lui. Perché dovremmo ricorrere ad un profeta vissuto migliaia di anni fa? Oggi non ci sono più uomini saggi, non ci interessano, oppure non sappiamo riconoscerli? «Io ricorro ad Isaia per il linguaggio: nessuno, da allora in poi, ha scritto con la stessa forza. Una sua frase basta a scuoterti perché contiene un destino. Oggi non c'è più fiducia in chi parla, perché tutti sospettano l'esistenza di secondi fini. Gli antichi profeti, invece, fronteggiavano i re senza timore e senza agende personali. Io cerco nel mondo voci morali, persone capaci di farti fermare per ascoltarle. Ma quando chiedo ai miei studenti di indicarmi chi ammirano, non sanno rispondermi. Gandhi, Martin Luther King, personaggi con quella forza non ci sono più. Forse perché servono intere generazioni per costruire simili caratteri. I politici, poi, invece di guidare seguono i sondaggi: siamo governati dai sondaggi. Voglio scrivere un libro in cui due o tre pollster si riuniscono in una stanza e ordiscono una cospirazione per governare il mondo: potrebbero farlo». In questo genere di mondo lei scrive un libro dedicato alle antiche scritture, e quindi alla comunicazione tra Dio e gli uomini: crede ci sia ancora interesse per Dio? «Per me sì. Questi sono i miei libri favoriti, che mi aiutano anche a ricostruire la mia infanzia. Ma credo che ci sia un bisogno di spiritualità diffuso. Magari è una religiosità vissuta più a livello personale, perché nel secolo scorso le religioni organizzate hanno fallito, ma esiste». A quali religioni si riferisce? «Tutte. Anche il fascismo e il comunismo, con il loro linguaggio e i rituali, non erano religioni?». Lei pensa che trovando le parole giuste per comunicare potremmo risolvere i problemi della nostra era, colmando i vuoti di comprensione con la cultura islamica? «Certo. C'è il fanatismo, eppure questo è il momento migliore della storia nel dialogo tra cristiani ed ebrei. Dobbiamo ringraziare le aperture ecumeniche di Giovanni XXIII, confermate anche da Giovanni Paolo II. Da allora in poi sacerdoti, rabbini e laici hanno iniziato ad incontrarsi ovunque. Però abbiamo commesso tutti un grave errore: ci siamo dimenticati dell'Islam, che avremmo dovuto includere subito come partner nel dialogo. E' troppo tardi, ora, per affermare che siamo tutti figli di Dio? Non lo so, ma spero di no». 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