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Il Foglio Rassegna Stampa
23.10.2003 Sugli insediamenti, Road Map, Arafat, Iraq
intervista a Richard Perle

Testata: Il Foglio
Data: 23 ottobre 2003
Pagina: 2
Autore: Michael Oren - Bret Stephens
Titolo: «Perle, tutte le idee del "principe delle tenebre" su guerra e pace»
Uscita sul Jerusalem Post, il Foglio pubblica una importante intervista a Richard Perle.
Considerate un fatto davvero sorprendente: Richard Perle non ha mai incontrato
Ariel Sharon. E’ il secondo giorno del Summit di Gerusalemme, e Perle deve ricevere un premio in memoria di Henry "Scoop" Jackson, il prestigioso senatore democratico di Washington, per il quale Perle aveva lavorato negli anni Settanta. Lo abbiamo incontrato verso mezzogiorno nella sua suite al King David Hotel, con un magnifico panorama sulle mura della Città Vecchia. Inevitabilmente, la nostra conversazione a tre ha finito per girare attorno al tema: "Richard Perle"; o meglio, non proprio su Perle, ma su quella creatura degli abissi che risale in superficie ogni volta che si scrive il suo nome per fare un ricerca internet con Google. Ecco il risultato: "Lo Svengali che domina Bush" (127 documenti); "Un sinistro sionista" (676); "Un probabile agente sionista" (2310); "Un uomo molto pericoloso" (4150). "Queste diffamazioni non mi danno molto fastidio – dice Perle – anzi, più diventano virulente e meno mi preoccupano". Ma in realtà la cosa non finisce esattamente qui. "Quando si tratta della BBC, mi arrabbio davvero", dichiara rispondendo a una domanda sull’antisemitismo. "Comparivo sulla BBC normalmente due volte alla settimana.
Poi ha trasmesso, all’interno del programma Panorama, un servizio intitolato ‘The War Party’, con tanto di cupe musiche e macabre fotografie, in cui eravamo presentati come una banda di oscuri cospiratori. Hanno oltrepassato per me ogni limite, e con la BBC non ho più niente a che fare".
In realtà, qualsiasi cosa possa essere Perle, non è certo una persona oscura. Di modi gentili, affabile, leggermente grasso, ormai superata la mezza età, ciò che rende interessante Perle è il suo candore e la sua presunta influenza sull’Amministrazione Bush. Ecco l’uomo che potrebbe essere considerato l’ombra grigia dietro a Rumsfeld, Wolfowitz o Cheney. La differenza sta nel fatto che Perle non è vincolato da considerazioni di opportunità politica o burocratica. Dice quello che pensa. E ciò che pensa Perle, si sospetta, è ciò che George W. Bush pensa o penserà prima o poi.

IL MURO E GLI INSEDIAMENTI
Oren - Gli israeliani affermano che si tratta di un confine di sicurezza, e non di un confine politico. Gli americani insistono che, in realtà, è un confine politico.
Perle - Se ha l’aspetto di un confine di sicurezza,è molto più facile da difendere. Minori saranno le dimensioni del muro e meglio sarà, perché i muri devono essere controllati. Penso che gli insediamenti devono essere protetti singolarmente. E ci sono alcuni insediamenti che pongono un problema di sicurezza. Se fossi un israeliano, sarei irritato con chi chiede ad altri israeliani di rischiare la propria vita solo per permettergli di vivere in un posto anziché in un altro. Non sono certamente disposto a dare un appoggio incondizionato a ogni insediamento. Se certe persone vogliono rischiare la propria vita, è una loro decisione. Chiedere ad altri di mettere in pericolo anche la propria… La società nel suo complesso dovrebbe esprimere la sua opinione su questo… Uno dei problemi circa la questione degli insediamenti, purtroppo, è che è diventata per molti aspetti una prova di volontà. Se abbandoni un insediamento, sembra una sconfitta e può servire a incoraggiare persone i cui obiettivi vanno molto al di là dell’eliminazione degli insediamenti. Come si possono abbandonare oggi gli insediamenti senza incoraggiare fortemente i combattenti della jihad? La ritirata dal Libano è stata una catastrofe.
O. - Ha contribuito allo scoppio dell’Intifada.
P. - Quanti insediamenti sono indifendibili?
O. - Ci sono 200.000 coloni, senza contare i sobborghi attorno a Gerusalemme. Circa 150.000 possono essere riuniti in blocchi… Poi ci sono insediamenti molto estesi, tipo quello di Gaza, assolutamente indifendibili. Stiamo parlando di circa 50.000 persone.
P. - Che cosa spinge una persona a vivere nell’insediamento di Gaza?
O. - La fede. Più ti spingi in avanti, più grande è la tua fede. C’è un insediamento (Itamar) dove una volta ho fatto servizio di riservista. C’era un grande stendardo sopra l’ingresso, con questa scritta: "Per tutta la nostra vita non andremo mai via di qui". Ma significava anche: "Non andremo mai via di qui vivi", e il messaggio è chiaro. Questa è gente che non si muove, che resiste e tiene duro, pronta a combattere.
P - Ebbene, hanno reso molto più complesso il problema di Israele. Se siete costretti a difendere ciò che è indifendibile, vi trovate impigliati in un bel dilemma.

LA ROAD MAP
O. - Mi sembra di aver letto o sentito due versioni diverse della sua posizione sulla road map. Sembra esserci una contraddizione. Secondo la prima, lei in sostanza appoggia la road map…
P. - Secondo me è avvenuto che l’incapacità di prendere sul serio il discorso del 24 giugno ha dato al Dipartimento di Stato l’opportunità di metterlo in sordina. Al Dipartimento di Stato erano rimasti inorriditi da quel discorso, che rappresentava un rottura radicale con la precedente politica americana. Così hanno cominciato a lavorare sulla road map, spacciata come applicazione di quel discorso, ma in realtà per molti aspetti niente affatto conciliabile con esso. Speravo piuttosto che, una volta presentata, la road map sarebbe stata adeguatamente modificata. Ma non credo che ciò accadrà. La sostanza del discorso del 24 giugno era questa: per prima cosa si deve trasformare l’Autorità palestinese, poi si darà l’appoggio a uno Stato palestinese. La road map dice: cominciate la trasformazione dell’Autorità palestinese in modi che sono reversibili, e noi inizieremo a muoverci in favore dello Stato palestinese. Il discorso del 24 giugno puntava a un fatto concreto, e questo fatto era la trasformazione dell’Autorità palestinese. Una cosa che non sarebbe mai avvenuta in fretta. Avevo sperato, quando è stata pubblicata la road map, che si sarebbero sottolineate le incongruenze, e che Israele l’avrebbe riportata nella direzione espressa dal discorso del 24 giugno.

ARAFAT
Stephens - Ieri abbiamo intervistato Sharon. Un mese fa il governo ha deciso che si sarebbe assunto l’incarico di decidere il momento in cui Arafat sarebbe stato rimosso dal suo incarico. Ma ora sembra che il primo ministro escluda inequivocabilmente una simile possibilità. La sola cosa che rimane da fare è aspettare che se ne vada.
P. - Se volete che se ne vada via, perché non lo isolate completamente dal punto di vista diplomatico?
S. - Infatti è proprio quello che molti stanno cercando di fare. Sharon si rifiuterebbe di incontrarsi con i ministri degli Esteri, ma questa politica funziona solo nell’ambito di uno stesso viaggio.
P. - E’ assurdo. E’ una caricatura della vera politica. E in ogni caso non va molto lontano. Penso che la politica dovrebbe essere questa: se voi e il vostro paese cedete ad Arafat, non avrete niente a che fare con noi. Se inviate il vostro ministro degli Esteri o del Commercio ad Arafat, non sperate di poter inviare qualsiasi ministro da noi. Se adotterete questa politica, tutti dovranno fare una scelta. Se dite a Javier Solana che non sarebbe il benvenuto in Israele se qualcuno dei suoi uomini si incontrasse con Arafat, quale credete che sarebbe la risposta dell’Unione? La cosa che l’Unione europea non può davvero sopportare è di essere irrilevante.
S. - Non mi sorprenderebbe se la Francia dicesse: "Va bene, d’accordo".
P. - E allora sia pure così. Non sapremo mai se Abu Mazen sarebbe riuscito a fare qualche passo avanti (in assenza di Arafat). Bisognava fare tutto il possibile per togliere di mezzo Arafat, ma non è stato fatto.

GIUSTIFICAZIONE DELLA GUERRA IN IRAQ
P. - La giustificazione di questa guerra non è mai stata limitata alle sole armi di distruzione di massa. Il presidente ha parlato molto presto di un cambio di regime. La tesi del cambio di regime è stata messa in secondo piano da quella delle armi di distruzione di massa in parte perché il Dipartimento di Stato ha sempre avuto difficoltà a parlare di cambio di regime… dato che è una tesi al di fuori della concezioni oggi accettate sulla legittimità internazionale… Ma le armi di distruzione di massa e la violazione delle risoluzioni dell’Onu rappresentano una solida giustificazione, e il Dipartimento di Stato ha mantenuto una visione legalmente corretta. Se qualcuno dovesse tornare indietro e riesaminare tutte le dichiarazioni di George Bush sull’Iraq, si accorgerebbe che a un certo punto il presidente ha smesso di parlare di cambio di regime e si è concentrato esclusivamente sulla violazione delle risoluzioni dell’Onu, alcune delle quali, detto per inciso, riguardavano
i diritti umani. Non si riferivano tutte alle armi di distruzione di massa. Ora questo è stato dimenticato e io sento dire tutto il tempo che la giustificazione fondamentale erano le armi di distruzione di massa. In ogni caso, sappiamo che Saddam aveva un programma per lo sviluppo di queste armi. Anche se non le abbiamo trovate, non credo che Saddam fosse davvero meno pericoloso anche se non ne avesse posseduto grandi quantità. La verità è che, dopo l’11 settembre, Bush è ossessionato dall’idea di non aspettare troppo a lungo. Il problema era poi complicato dal declino del sostegno dato alla politica di contenimento, che non era più un semplice contenimento. Il regime di sanzioni stava crollando a pezzi… C’era la prospettiva molto concreta che Saddam potesse emergere come un grande eroe, sopravvissuto al regime di sanzioni e allo scontro con l’Occidente, capace di violare impunemente il cessate il fuoco e qualsiasi risoluzione Onu: una situazione sempre più intollerabile. Perciò dovevamo fare qualcosa.

VINCERE LA GUERRA
S. - Gli Stati Uniti vinceranno la guerra?
P. - Sì, ne sono assolutamente certo.
O. - Che cosa intende per vittoria?
P. - La capacità di lasciare, in un periodo di tempo ragionevolmente breve, l’Iraq con un governo stabile e migliore, e con autentiche prospettive di crescita economica, sviluppo e benessere per il popolo iracheno…
O. - Si potrebbe tuttavia determinare una situazione pericolosa come a Beirut nel 1983, con un attentato suicida che riesce a uccidere molti soldati e impiegati militari americani. Se i repubblicani perdessero le prossime presidenziali e i democratici salissero alla Casa Bianca, crede che i democratici potrebbero usare un simile evento come pretesto per ritirarsi dall’Iraq? O, detta altrimenti: è sicuro che l’impegno dell’America in Iraq non sia semplicemente il frutto di un programma repubblicano?
P. - Ne sono convinto. Nessuna Amministrazione responsabile se ne andrebbe via
prima di aver reso il paese stabile e pronto a dotarsi du un governo affidabile.
O. - Gli americani potrebbero avere qualche interesse a vedere la nascita di tre Stati diversi in Iraq (a base sunnita, shiita e kurda), ognuno alleato degli Usa, e con un compito diverso da svolgere nella regione?
P. - Non credo… Nel caso di Stati separati, non vedo altro che confusione esterna… La situazione, in Iraq, migliora di giorno in giorno. E questo resta vero anche se oggi dovesse scoppiare un autobomba. Queste autobombe sono diverse dalle altre. Nessuno rivendica gli attentati dicendo chi è e le ragioni
della sua azione, semplicemente perché non ha nulla da dire che possa essere ascoltato e condiviso da tutti gli altri iracheni. Si tratta degli uomini di Saddam, con l’aiuto esterno di alcuni terroristi… Si sta ora organizzando in Iraq un sistema giudiziario. I tribunali funzionano e questa gentaglia verrà processata e impiccata.

GLI ALTRI FRONTI
O. - La communis opinio, prima dell’11 settembre, era che l’America fosse una tigre di carta sull’orlo dell’abisso. Bastava soltanto una piccola spinta. Ma le cose sono completamente cambiate: nessuno dice più che gli americani sono paurosi.
P. - Ha senz’altro ragione. I terroristi credevano che saremmo crollati alla prima sfida. Ci avevano visto ritirarci dal Libano. Ci avevano visto ritirarci dalla Somalia. Avevano visto Israele ritirarsi dal Libano. Ci avevano visto fallire ripetutamente nelle nostre capacità di risposta agli attacchi terroristici. La loro conclusione è stata che, con il terrorismo, avrebbero potuto battere gli Stati Uniti, che essi considerano come il vero ostacolo al raggiungimento delle loro folli ambizioni. Difficile dargli la colpa per essere giunti a questa conclusione.
O. - Quale ritiene che debba essere la posizione americana nei confronti della Siria?
P. - La Siria è in se stessa un’organizzazione terroristica. L’America deve assumere un atteggiamento più rigido con i siriani… A Washington circolano alcune indiscrezioni, che sembrano provenire dal Dipartimento del Tesoro, secondo le quali in Siria si troverebbe gran parte dei soldi di Saddam, e che sarebbe usata per finanziare gli attentati terroristici in Iraq.
S. - Se tutto ciò viene confermato, crede che convincerà gli Stati Uniti a intervenire contro la Siria?
P. - Lo spero.
O. - Veniamo all’Arabia Saudita. Gli Stati Uniti presentano due immagini contraddittorie. Prima Bush pronuncia il discorso del 24 giugno sul Medio Oriente e poi, neanche una settimana dopo, gira in macchina per il suo ranch col principe dell’Arabia Saudita. E’ possibile tenere il piede in due scarpe? Combattere il terrorismo senza combattere le sue fonti e chi lo sovvenziona?
P. - No, bisogna combattere le sue fonti. E penso che lo stiamo facendo e che il presidente sappia perfettamente quale sia il ruolo dei sauditi. E sa che deve impedirgli di continuare a farlo. Ma il modo per ottenere questo risultato non è facile da trovare.

IL PROBLEMA PIU' DIFFICILE
O. - Il popolo americano riuscirà mai a comprendere davvero contro che cosa sta
combattento l’America in Medio Oriente?
P. - La situazione è parecchio cambiata dopo l’11 settembre, [...] ma il quadro resta confuso perché circolano un sacco di fandonie sull’Islam, che sono del tutto insignificanti, in quanto esiste un’altra realtà della quale ci dovremmo preoccupare anche se l’Islam fosse una religione pacifica. E solo ora si comincia a comprendere l’unità della minaccia terroristica. Dunque, se vogliamo che il popolo capisca la situazione, la prima cosa da fare è avere leader che la
comprendano perfettamente. E non mi pare di averne visti molti in giro, anche tra coloro che dovrebbero comprenderla meglio di chiunque altro: i leader israeliani. Sia quelli della sinistra che quelli della destra. Qual è stato l’errore di Oslo? Ce ne sono stati molti. Ma uno dei peggiori è stato consentire
la coesistenza di questo genere di posizioni radicali. Qualcuno avrebbe dovuto
fermarsi e dire che non si può avere un processo di pace in superficie se poi, al di sotto di essa, si fanno marciare bambini con fucili di legno insegnando loro l’onore di uccidere ebrei e israeliani. Si tratta di una cosa fondamentale. Israele non l’ha fatta e continua a non farla. E si vede. [...]
S. - Ma è un compito che va ben al di là della garanzia che l’Autorità palestinese cessi di sovvenzionare o tollerare l’incitamento al terrorismo. Il problema è quello di una cultura che per molti aspetti è impazzita. Prendiamo Abu Mazen, ad esempio. Ecco un uomo che ad Aqaba pronuncia in arabo un discorso sulla fine del terrorismo e su una Palestina che rappresenti "una felice aggiunta alla famiglia delle nazioni democratiche"; e l’effetto istantaneo
delle sue parole è stata la caduta verticale della sua popolarità tra i palestinesi.
P. - Lo so, è scoraggiante.

MANCANZA DI RABBIA
O. - Nella Seconda guerra mondiale la risposta dell’America contro i suoi nemici fu alimentata dal senso di profonda rabbia suscitato dall’attacco a Pearl Harbor. La società americana è capace di provare ancora questo sentimento? [...] E’ capace di affrontare una guerra senza limiti?
P. - Sì, lo è. E il prossimo attacco terroristico farà scoppiare questo sentimento, come è già avvenuto l’11 settembre.
O. - Sono più colpito dalla sua assenza.
P. - Ecco, è stata controllata ma, credetemi, il sostegno per la guerra contro i Talebani e anche per quella contro l’Iraq è stato molto forte. [...]
S. - Si racconta la storia della visita di Bush al World Trade Center subito dopo l’attentato. Stava parlando con alcuni pompieri quando, a un tratto, si rivolse ad uno di loro dicendo: "Che cosa posso fare per te?" Il pompiere rispose: "Aiutare le vedove e gli orfani". Ma Bush insistette: "No, voglio dire, proprio per te". Il pompiere disse: "Trova quel figlio di puttana che ha fatto questo e uccidi lui, sua moglie, i suoi figli, il suo cane, e chiunque gli abbia offerto anche solo una tazza di caffè".
P. - E’ una storia che mi piace. Sapete, molti nostri soldati in Iraq si portano appresso dei frammenti del World Trade Center. Si discute ancora sulle connessioni tra Saddam Hussein e l’11 settembre. Ma questi soldati non si fanno illusioni; fa tutto parte della stessa guerra.

L'EREDITA' DI SCOOP JACKSON
O. - Sto scrivendo un nuovo libro, intitolato "Fantasy, Faith and Power": si tratta di una storia generale dei duecento anni di coinvolgimento americano nel Medio Oriente. Un aspetto di questo coinvolgimento è rappresentato dal contributo dei protestanti americani, e precisamente ai loro rapporti col popolo ebraico come forte impulso all’impegno americano. Quando penso a uomini come Scoop Jackson, mi chiedo sempre: da dove arriva tutto questo?
P. - Credo di saperlo. Arriva dalle sue radici di figlio di immigrati norvegesi. Suo padre faceva parte del sindacato. [...] Scoop aveva una totale devozione per i valori della democrazia e fu profondamente colpito dall’invasione nazista della Norvegia. La lezione che ne trasse era che quella piccola democrazia liberale e progressista, all’avanguardia del mondo per la sua giustizia sociale, era stata invasa e occupata in pochi giorni, e che pertanto bisognava essere forti. I paesi piccoli sono vulnerabili. Aveva l’abitudine di confrontare Israele con la Norvegia, due paesi che hanno ottenuto eccezionali risultati ma facilmente vulnerabili. E da qui che partì. Divenuto membro del Congresso, cercò di arruolarsi nell’esercito, ma non gli fu permesso perché i membri del Congresso avevano l’obbligo di rimanere al posto in cui erano stati eletti. Alla prima opportunità, si unì alle forze
americane come membro del Congresso, e fu presente alla liberazione di Buchenwald. Una cosa che non si dimentica. Firmò una lettera sulla fondazione di uno Stato ebraico che fu fatta circolare al Congresso. Odiava il totalitarismo, di sinistra e di destra, si spiega così il suo impegno nei confronti degli ebrei sovietici, che volevano andarsene ma non gli veniva dato il permesso. Per caso, proprio quando le autorità sovietiche si decisero a ridurre l’immigrazione, l’Amministrazione aveva pronta una legge che proponeva concessioni commerciali a Mosca, e Scoop colse l’occasione per il famoso emendamento Jackson-Vanik.
O. - Ha deciso di lavorare con lui per le sue posizioni su questi temi?
P. - No. Tutto al contrario. Non ero mai stato in Israele. Né avevo mai dedicato molta attenzione alle questioni israeliane. Scoop diceva con orgoglio di avermi aiutato a scoprire le mie radici ebraiche, ed era vero. Era un uomo straordinario.
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