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Il Foglio Rassegna Stampa
23.10.2003 ONU contro Israele sulla costruzione della barriera di difesa
una approfondita analisi sul Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 23 ottobre 2003
Pagina: 1
Autore: due giornalisti
Titolo: «Fine di un tabù - Nascita di un tabù»
Riportiamo due analisi pubblicate in prima pagina sulla condanna dell'ONU per la costruzione della barriera di sicurezza in Israele.
Il primo articolo è titolata: "Fine di un tabù".

Roma. Con una risoluzione proposta dall’Italia, presidente di turno dell’Ue, e votata da tutti gli Stati europei, l’Assemblea generale dell’Onu ha condannato Israele per la costruzione del muro in Cisgiordania. La risoluzione, secondo gli israeliani, rispecchia la peggior tradizione diplomatica europea, piena com’è di equivalenze morali e complici silenzi. Non è un documento equilibrato e di compromesso, per facilitare la soluzione "due Stati per due popoli" nel conflitto israelo-palestinese: la risoluzione condanna una barriera che intende scoraggiare il vero ostacolo alla ripresa dei negoziati, cioè il terrorismo.
Solo quattro paesi hanno votato contro: Israele, Stati Uniti, Isole Marshall e Micronesia. Che l’Assemblea generale passi mozioni di condanna contro Israele non è una novità. Che gli europei prendano le parti del mondo arabo nemmeno. Che Israele si trovi a godere solo dell’appoggio di Stati Uniti e qualche isoletta del Pacifico neppure. Quello che è nuovo in questa risoluzione è il contesto in cui si colloca. Essa viene approvata subito dopo il discorso del premier malese Mohammed Mahatir alla Conferenza dei paesi islamici, dove il
vecchio leader ha candidamente evocato l’antico adagio antisemita degli ebrei che controllano il mondo, la stampa, la finanza internazionale e tutto il resto. Quel discorso non riesce a ottenere una condanna netta proprio in Europa, dove i governi, pur condannando a parole il terrorismo, lo considerano
una conseguenza delle politiche israeliane e non una strategia studiata a tavolino, che esprime il rifiuto del principio di compromesso territoriale, il desiderio di distruggere Israele, e l’impegno alla guerra totale e infinita. Quel terrorismo si nutre anche della demonizzazione degli ebrei che percorre oggi il mondo arabo e islamico, e che Mahatir ha così candidamente espresso ottenendo l’ovazione dei rappresentanti di 57 paesi. Che quei leader non si peritino di propagare una versione medievale di odio antisemita nei loro paesi attraverso gli organi di stampa e i libri scolastici dovrebbe forse suscitare sdegno, riprovazione e condanna (sentimenti espressi pubblicamente dal presidente americano George W. Bush). Che gli europei scelgano di sottilizzare sull’accaduto e di condannare invece Israele per la costruzione del muro viene inteso da molti osservatori come il crollo di un tabù, una strisciante legittimazione della versione antisionista dell’antisemitismo. Quegli stessi europei non ebbero voglia di abbandonare la conferenza di Durban nel settembre 2001, quando un consesso internazionale dell’Onu dedicato alla lotta al razzismo veniva trasformato in una legittimazione del pregiudizio, sionismo=razzismo, e dirottato dall’agenda palestinese per fini estranei allo scopo del forum; oggi ritengono di servire la causa della pace assestando un colpo unilaterale al diritto di autodifesa di Israele e mettendo sotto il tappeto la condannadell’antisemitismo grossolano espresso da un campione della classe dirigente asiatica. La novità non sta né nella condanna di Israele né negli schieramenti di voto all’Onu. La novità sta nella connesione sottile, ma palpabile, tra i linguaggi imbarazzati dell’Europa di fronte all’antisemitismo e la sua petulante dedizione a condannare Israele per una misura che gli israeliani difendono come necessaria per la loro sicurezza.

S’inverte il principio di causa ed effetto
Per l’Europa, la causa della pace tra Israele e palestinesi è centrale per la lotta al terrorismo così come per la stabilità del Medio Oriente e i rapporti tra Occidente e mondo arabo. E’ la litania di ogni think tank che si rispetti, quelli progressisti in testa. Di fronte all’ennesimo fallimento della diplomazia, la sua reazione istintiva è di incolpare Israele, specie se attaccare Israele serve a imbarazzare l’America, con cui ha un contenzioso più ampio. Mancando una chiara vittoria politica americana nell’impresa irachena, gli europei criticano la politica di Washington per riaffermare un loro ruolo attivo e una loro influenza sulla diplomazia. Il problema però non è il peso politico, ma il tipo di diagnosi della crisi mediorientale e le soluzioni da perseguire. Il muro esiste a Gaza e ha finora impedito agli attentatori suicidi/omicidi di penetrare all’interno di Israele e colpire civili inermi. Non così nella Cisgiordania. Che il muro produca obbrobri paesaggistici e sofferenze concrete alla popolazione palestinese è indubbio. Ma il muro è una risposta sia al terrorismo sia alla incapacità dei palestinesi di rinunciare alla violenza e accettare la diplomazia e il compromesso come uniche legittime strade per la pace. Non ne è la causa. Ne è la conseguenza. Gli americani non sono entusiasti per il muro, ma comprendono il nesso terrorismo- causa/muro-effetto perché vedono che il vero problema, così ben definito da Mahatir, è che il diritto di Israele a esistere non è stato ancora accettato nel mondo arabo e islamico. Per gli europei questo rifiuto esistenziale invece non è il problema. Il problema è Israele.
"Nascita di un tabù", il secondo articolo pubblicato sempre in prima pagina sul Foglio di oggi.
Roma. Gli israeliani non lo chiamano "copà", muro, ma "gader", recinzione, e vorrebbero che tutti avessero bene in mente la differenza. Battaglia persa, almeno per ora, visto che da quando è stata intrapresa la costruzione della barriera tra Israele e territori palestinesi in Cisgiordania, non passa giorno senza che venga rinfacciato a Gerusalemme di aver voluto un nuovo "muro di Berlino". Ora, con l’approvazione della risoluzione Onu (sia pure non vincolante) contro il "muro" e per lo smantellamento della parte già edificata, quel parallelo indigeribile si trova ad avere una sorta di implicito avallo, e si candida a trovare nuovi sostenitori. Tra i quali, con lo stile che gli è proprio, si è segnalato José Saramago. Il Nobel per la letteratura ha dichiarato infatti che la decisione di Israele "ci obbliga a ricordare i ghetti in cui gli stessi ebrei erano costretti a vivere". Ma ben più delle esternazioni di Saramago, appare impressionante l’unanimità europea, espressa senza tentennamenti nella condanna di quello che nasce come un sistema di difesa dalle incursioni dei kamikaze, deciso dopo una infinita catena di stragi. E’ un mondo smemorato, quello che assimila lo sbarramento in Cisgiordania al "muro della vergogna". Dimenticando, tra l’altro, che l’idea della barriera di separazione non è un parto del falco Sharon, ma nasce in casa progressista. Il copyright dell’idea ("l’unica è uscire dai territori, senza aspettare un accordo che non arriva mai, e tirare su una barriera senza tanti complimenti, un muro, insomma un confine che sia netto e insuperabile") appartiene infatti allo scrittore Abraham B. Yehoshua, campione del partito del dialogo. Oggi Yehoshua sottolinea che c’è differenza tra la sua idea e l’operazione avviata da Sharon, che non prevede lo smantellamento degli insediamenti e penetra anche nelle zone destinate al futuro Stato palestinese. Ma neanche per un momento rinnega la necessità del "gader", della recinzione, prima di tutto sistema non violento di difesa. Subito approvato con entusiasmo dall’ex premier laburista Ehud Barak, così come da una parte importante del suo partito. E che tuttora, pur turbata dalla riprovazione internazionale, continua a pensare che il "gader" sia l’unica risposta adeguata alle emergenze del presente. A differenza di quanto avviene per alcuni esponenti del Likud e per tutti i partiti religiosi, che temono che la demarcazione tagli fuori una parte degli insediamenti e contribuisca a disegnare i confini di un possibile futuro Stato palestinese. L’America non ci casca Dopo la condanna all’Onu, il vicepremier israeliano Ehud Olmert ha dichiarato che non cambia nulla: "La recinzione continuerà a essere eretta, e noi continueremo a prenderci cura della sicurezza dei cittadini di Israele". Gli europei smemorati, invece, dovrebbero almeno rileggersi un intervento di Yehoshua sulla Stampa dell’11 agosto scorso, in cui lo scrittore puntualizza che il muro di Berlino e "il confine tra la Germania orientale e quella occidentale eretti dall’impero sovietico dividevano un popolo con una lingua, una cultura e un passato comune. I tedeschi occidentali non volevano compiere attentati terroristici nella Germania dell’est e il confine non intendeva quindi proteggere i cittadini dalla violenza ma evitare che gli uni si ricongiungessero agli altri sotto un regime democratico". E aggiunge: "Gli europei, che fino a pochi decenni fa si sono combattuti, hanno abbattuto vecchi confini e ne hanno fissato dei nuovi, hanno versato il sangue di decine di milioni di esseri umani… non possono essere tanto romantici da credere che ciò che hanno ottenuto con decenni di paziente lavoro possa essere raggiunto con uno schiocco di dita nel pieno di una lotta sanguinosa tra due popoli che hanno conosciuto solo conflitti". Gli americani, nel frattempo, meno romantici e più pragmatici degli europei, da una parte votano contro la risoluzione di condanna del "muro" e dall’altra alzano la guardia nello spinoso campo del mantenimento della pace multietnica in casa loro. Lo prova la decisione del segretario alla difesa, Rumsfeld, che ha avviato un’inchiesta interna sulle dichiarazioni del generale William G. Boykin, sottosegretario alla Difesa per l’intelligence. Boykin, fervente evangelico, avrebbe detto in pubblico che l’Islam radicale vuole distruggere l’America "perché è una nazione cristiana", e che quello venerato dai musulmani è "un idolo" e non "un vero Dio". L’Amministrazione è stata costretta a puntualizzare che quella contro il terrorismo non è una guerra contro l’Islam. Un richiamo, ai massimi livelli, a non dimenticare che la forza dell’America è fatta di multiculturalismo.
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