L'accordo di Ginevra e la sinistra israeliana Alcune riflesssioni
Testata: Il Foglio Data: 22 ottobre 2003 Pagina: 5 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Ancora un tentativo encomiabile ma ancora un azzardo della sinistra»
Riportiamo l'articolo di Emanuele Ottolenghi pubblicato su Il Foglio di oggi, mercoledì 22 ottobre 2003. Per chi volesse approfondire l'argomento rimandiamo alle nostre critiche dei giorni scorsi. Dopo gli accordi di Londra del 1987, il documento Beilin-Mazen del 1995 e le intese a Ayalon-Nusseibeh, tocca ancora una volta a Yossi Beilin redigere un accordo di pace senza il mandato popolare o un governo ad autorizzarlo. L’accordo di Ginevra rappresenta indubbiamente, come del resto lo erano i suoi predecessori, un encomiabile tentativo di dar forma a un tipo di compromesso possibile tra israeliani e palestinesi. Per gli autori dell’accordo il documento rappresenta un esercizio intellettuale; per gli sponsor internazionali invece, esso è la sola via d’uscita che prima o poi dovrebbe venire imposta ai recalcitranti governi dei rispettivi popoli. Nessuno si illuda sul successo di questo ennesimo atto di autosuggestione. I firmatari rappresentano da ambo le parti forze politiche in declino, esautorate, sconfessate, e mal viste dalla piazza. Certo, quegli europei che hanno sostenuto l’accordo credono che la volontà popolare non conti di fronte alla verità e al buon senso. Ma va subito detto a chi sogna come stiano le cose: Amram Mitzna ha vinto sì la nomination a guida del Partito laburista, ma ha poi perso le elezioni; Avraham Burg ha perso la nomination al Partito, anche se poi ha vinto un seggio in Parlamento. Beilin non ha conquistato nemmeno quello, sbattendo la porta del Partito laburista dopo aver perso le elezioni primarie. I tre perdenti stanno cercando, anche attraverso l’accordo, di riproporsi al pubblico israeliano come dei leader politici della sinistra e l’accordo rappresenta un’altra forza programmatica per la sinistra israeliana. Non è un caso che l’accordo, pubblicato due giorni fa dal quotidiano israeliano Haaretz, e in attesa di essere firmato a Ginevra il 4 novembre, appaia qualche settimana prima della fondazione di un nuovo partito in Israele che aspira a sostituire i laburisti come guida della sinistra. Il leader di questo partito? Yossi Beilin, che lancia dunque un’iniziativa che rappresenta una sfida al governo, ma anche alla sinistra. Il che spiega la partecipazione di Mitzna e Burg preoccupati di non essere da meno di Beilin, la piccata critica di Barak, che crede gli israeliani si siano già dimenticati della sua pallida performance e la furba replica di Haim Ramon (altro aspirante) che dice che "il diavolo è nei dettagli". Il che è vero. L’accordo viene accolto con stizza dai politici, con sospetto e scetticismo dal pubblico. In un sondaggio del 16 ottobre di Maariv, il 58,8 per cento degli israeliani è contrario a qualsiasi negoziato finché non cessi il terrorismo. Il 59,6 per cento crede che non ci sia possibilità di dialogo nei prossimi anni. Il 71 sostiene il muro, il 63 ritiene che l’insediamento di Ariel debba esserne incluso. I sostenitori dell’accordo dicono che i sondaggi riflettono una disperazione causata dalla mancanza di opzioni per il governo. Sharon avrebbe perseguito la sua guerra contro il terrorismo senza lasciar spazio a un orizzonte politico, che l’accordo di Ginevra ora offrirebbe. Ma quello che i sondaggi dicono è che le concessioni di Ginevra sono andate oltre quanto il pubblico accetterbbe oggi e che chi le ha fatte non gode della fiducia del pubblico e non lo rappresenta. La sinistra israeliana, che si ostina a ritenersi governo in pectore nonostante il suo ormai ventennale declino di consensi, pecca ancora una volta di arroganza, specialmente vista la replica palestinese. I sostenitori dell’accordo dicono a ragione che nella delegazione palestinese vi fossero ministri dell’Anp e che Yasser Arafat fosse informato. L’esperienza dei due altri accordi – Mazen Beilin del 1995 e Ayalon-Nusseibeh del 2002 – mostra come le due condizioni non garantiscano nulla. L’Anp ha accolto l’iniziativa, definendola come una base per una trattativa, cosa detta in altre occasioni, non da ultimo gli accordi di Taba e i parametri Clinton. Base per i negoziati significa modifiche, ovvero ulteriori concessioni, senza le quali Ginevra non varrà nulla. In Cisgiordania si è già protestato contro l’accordo, perché comporterebbe la rinuncia palestinese (sia pur diluita) delle rivendicazioni sui rifugiati. Gli accordi di Ginevra rappresentano l’espressione di buone intenzioni. Ma esse non tengono conto di tre cose: la mancanza di credibilità, sostegno e legittimazione dei negoziatori; la natura indigesta del contenuto dell’accordo per le due parti in causa (che i rispettivi governi e opinioni pubbliche hanno già dichiarato) e il fatto che oggi prima di porre ai due popoli l’ennesima versione della pace perpetua, è più urgente, più pratico e più realistico cercare di ottenere un cessate il fuoco. Per quanto riguarda i retroscena dell'accordo di Ginevra, riportiamo un articolo pubblicato sulla stessa pagina de Il Foglio. Questo il titolo: "I compromessi e le concessioni"
L’accordo di Ginevra è un documento non ufficiale. I redattori sono esponenti della sinistra israeliana, come Yossi Beilin, Amram Mitzna e Avraham Burg, dell’Olp, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, come l’ex ministro Abed Rabbo, e rappresentanti delle due società civili, come lo scrittore Amos Oz. La bozza è frutto – è scritto nel preambolo del documento – della determinazione di una parte della popolazione palestinese e israeliana di mettere fine al conflitto e di cooperare per la pace. Il preambolo sottolinea che l’unica soluzione è l’esistenza di due Stati sovrani, basati sull’accettazione delle risoluzioni 242 e 338 dell’Onu. Le soluzioni proposte toccano tutti i punti più critici del conflitto. Il testo è diviso in sei parti e 17 articoli: il preambolo è seguito da una sezione dedicata alla risoluzione della disputa sui territori contesi, poi la sicurezza, Gerusalemme, il ritorno dei rifugiati, le strade, i luoghi santi, i prigionieri. Nelle 50 pagine della bozza, che assomiglia molto alle ultime proposte di Bill Clinton del 2000, la parola d’ordine è il compromesso. Entrambe le parti devono scendere a patti e fare concessioni, a partire dal riconoscimento di due Stati sovrani confinanti, quello israeliano e quello palestinese. Israele dovrà accettare di ritirarsi entro i confini del 1967. Gerusalemme verrebbe divisa tra arabi (Est) ed ebrei. Per quanto riguarda i luoghi sacri, la zona della Spianata delle moschee sarà palestinese (forse una delle concessioni maggiori da parte israeliana), il Muro del pianto sarà invece israeliano. Nelle vicinanze dei siti sacri della città santa, sarà stanziata una forza di sicurezza internazionale, per assicurare l’accesso ai luoghi di culto ai fedeli di tutte le religioni. Israele lascerà molti degli insediamenti. I palestinesi invece dovranno rinunciare in parte al diritto al ritorno dei rifugiati, eccetto che per un numero limitato di essi, in casi particolari e prestabiliti. Dovranno impegnarsi a lottare contro il terrorismo, a disarmare i gruppi armati, a mantenere uno Stato demilitarizzato e supervisionato da una forza internazionale, mentre all’intera applicazione dei patti collaborerebbe un "Implementation and Verification Group", composto anche da americani, russi, europei e Onu. Le parti firmeranno l’accordo il 4 novembre a Ginevra. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.