L'ennesimo piano di pace Basta che sia contro Sharon poi piace, eccome se piace
Testata: La Stampa Data: 19 ottobre 2003 Pagina: 1 Autore: Barbara Spinelli-Mario Vargas Llosa Titolo: «Date una mano ai pacifisti»
Il cosidetto "piano di pace" presentato congiuntamente da politici israeliani non governativi (nel senso che gli elettori non li hanno mandati al governo) e palestinesi, piace, piace da morire. Si ditinguono in modo particolare STAMPA e MESSAGGERO. Brilla in modo particolare LA STAMPA, che non solo pubblica in prima l'editoriale di Barbara Spinelli "Ora l'Europa aiuti i pacifisti israeliani",ma, come se non bastasse, dedica un'intera pagina della cultura a Mario Vargas Llosa, che se la prende con i media che, secondo lui, sono tutti sbilanciati a favore di.... Israele. L'articolo di B.Spinelli, oltre ad essere per una buona metà violentemente antiamericano, quando attacca a parlare di Israele commette una dimenticanza di non poco rilievo. Come dice il titolo, chiede all'Europa di "aiutare i pacifisti israeliani". E quelli palestinesi ? forse che l'Europa non li deve aiutare ? Non sarà che magari è un po'difficile trovarne ? Spinelli omette il fatto che tutti i colloqui di pace sono falliti per colpa di Arafat. Sarà un caso che lo ometta ?. Sul MESSAGGERO gran rilievo al pezzo di Eric Salerno, anche lui fremente di entusiasmo per un piano che sul fronte politico non conta nulla. Gli elettori israeliani non hanno dato l'incarico a Mitzna o a Beilin di formare il governo che li deve rappresentare, ma a Sharon. L'opposizione faccia il suo lavoro, come è giusto, critichi il governo, come è giusto, ma eviti di sovrapporsi con delle decisioni che le spettano. Quisquiglie di carattere istituzionale che non interessano ai nostri commentatori. Per loro è sufficiente che venga attaccato Sharon. Tanto basta. Pubblichiamo per intero gliarticoli della Stampa. Ecco il testo di B.Spinelli DOPO il voto unanime al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli europei che vogliono unirsi e contare nel mondo hanno due possibilità. Possono interpretare il voto sull’Iraq come una specie di penitenza per gli errori commessi da governi come Francia e Germania, e in tal caso avranno imparato una sola lezione dal passato: la potenza americana è a tal punto preponderante che l'Europa non può rendersi autonoma, pena la propria insignificanza. Tale è la nuova legge internazionale - così ragionano i teorici del presunto trionfo statunitense all'Onu - e ad essa occorre adattarsi se non si vuol fare la fine, abbastanza ridicola, di chi protesta contro il padre-tutore ma continua poi ad aver disperato bisogno che il padre distribuisca i frutti delle sue prestazioni belliche e del suo dominio globale. Gli economisti e strateghi inglesi danno a chi si comporta in tal modo il nome di free rider: gli europei non sarebbero altro che individui che vogliono usufruire di una corsa gratis, rifiutando di contribuire all'esborso del costo del biglietto nella speranza che siano gli altri a pagare. Userebbero il mezzo di trasporto messo a disposizione dall’iperpotenza Usa - e i benefici che ne possono derivare - ma senza volerne pagare i costi: se l'America vince vincerà anche l'Europa, se perde perderanno tutti ma almeno l'Europa non avrà sacrificato né soldi né uomini. Quanto sia pericolosa questa visione lo si è visto nei giorni scorsi: Vladimir Putin, interessato a non esser disturbato in Cecenia, ha fatto di tutto perché il consenso dato dagli europei apparisse come un allineamento acritico al nuovo duopolio russo-americano. Presentandosi come mediatore tra il sovrano Usa e i piccoli riottosi sovrani d'Europa, il Cremlino ha ottenuto il silenzio dell'uno e degli altri su ciò che più gli sta a cuore: la presenza, sovranamente prevaricatrice, nel Caucaso. La seconda possibilità, per l'Europa, è di considerare il voto all'Onu come una sconfitta di tutte le posizioni unilateraliste, di tutte le sovranità statali assolutizzate. Tutte hanno fatto fallimento negli ultimi tempi, compresa quella americana che nella sostanza può continuare a operare unilateralmente in Iraq, ma ormai in nome d’una risoluzione Onu.
L’America ha smesso di esser potenza iper-sovrana due volte, ultimamente. Una prima volta l'11 settembre, quando furono abbattute le Torri; una seconda volta nell’ultima guerra del Golfo: guerra fortunata nelle prime settimane, ma poi degenerata in guerriglia. Oggi l'amministrazione è impantanata in un difficilissimo riordinamento dell'Iraq, che somiglia molto poco alle ricostruzioni postbelliche in Germania o Giappone. Non c'è a Baghdad un'amministrazione autonoma funzionante, non c'è un lento abituarsi alla pace civile e militare, ma c'è una guerra che continua e c'è una maggioranza sciita che ha salutato la caduta di Saddam ma che vuol ora liberarsi di quella che considera un'occupazione. La dottrina delle guerre preventive non esce vincente da quest’esperienza, ma gravemente malconcia: d'ora in poi l'America faticherà più che in passato a essere creduta, quando minaccerà di combattere i mali del mondo. La sua capacità di dissuasione è debilitata anziché consolidata, la sua vulnerabilità accresciuta anziché diminuita, ed è questa potenza inferma che gli europei hanno in realtà appoggiato all'Onu. Questo significa però che i compiti cominciano ora, per gli europei che aspirano a unirsi. Proprio perché l'America è così debole, proprio perché le armi occidentali non sono percepite più come interamente credibili, proprio perché la dottrina preventiva Usa sta degenerando, occorre che gli europei si diano al più presto una difesa e una politica estera, capaci di prevenire davvero i pericoli. E questo in due modi: lavorando perché la possibilità d'una difesa europea sia contemplata nella costituzione, e perché tale difesa diventi non una somma di nazioni, non una somma di eserciti a disposizione delle strategie americane - come sembra volere il governo britannico - ma un'autentica unione che farà politica, che saprà organizzare militarmente quel che la Nato non sa più organizzare, e che prenderà decisioni a maggioranza, se necessario. Ma è soprattutto in Medio Oriente che l'Europa deve far sentire la sua voce e la sua forza, fin d'ora, ed operare perché la debolezza statunitense non crei sconquassi. Dicono in molti che lo stallo è totale in questa zona ma una strada esiste, anche se tenue. C'è un accordo di pace informale, sottoscritto da leader dell'opposizione israeliana e da dirigenti palestinesi tutt’altro che marginali, che l'Europa potrebbe attivamente appoggiare. È il cosiddetto accordo di Ginevra, presentato domenica scorsa in Giordania dall’ex ministro della Giustizia israeliano Yossi Beilin e dall’ex ministro dell’Informazione palestinese Abed Rabbo. Non è una proposta ufficiale, e il premier Sharon ha già liquidato l'accordo come un'impresa fraudolenta, vergognosa: condotta alle spalle del governo, d'intesa col nemico terrorista. Ma l'iniziativa ha l'appoggio di tutti coloro che aspirano a resuscitare un dialogo di pace, non solo a sinistra, ed è l'unica disponibile. Ha l'appoggio dell'ex candidato laburista alla presidenza del Consiglio Amram Mitzna e del deputato laburista Abraham Burg. Raccoglie il consenso degli scrittori David Grossmann e Amos Oz. È guardata con interesse da alcuni moderati del Likud. Quanto ai palestinesi, la maggior parte dei firmatari è legata a Arafat o a Marwan Barghouti, fondatore delle milizie Tanzim-Fatah che hanno contribuito alla nascita della seconda Intifada. Il loro assenso significa che qualcosa si muove in Palestina, e che le parole di Sharon non sono vere: non sono inesistenti e non sono tutti adepti di Bin Laden, gli interlocutori palestinesi di chi voglia lottare contro il terrorismo e fare anche la pace, in Israele. Le iniziative ufficiali e non ufficiali sono state molte, in passato. Ma questa presenta un vantaggio considerevole e assai innovativo, rispetto ad altre. Per la prima volta, i palestinesi che hanno firmato accettano l'esistenza di uno Stato israeliano a maggioranza ebraica, come nei progetti originari del sionismo, e fanno passi avanti sostanziali sulla questione che ha sin qui impedito ogni accordo: il diritto al ritorno dei profughi palestinesi che sono stati espulsi dalle terre su cui Israele costruì il suo Stato, nel '48-'49 (simile ritorno metterebbe fine a uno stato maggioritariamente ebraico). Alcune ambiguità permangono, perché il diritto non viene ufficialmente abbandonato: ma nell’articolo 7 e nell’opzione 4 dell'intesa di Ginevra il ritorno dei rifugiati è considerato possibile solo se Israele dà sovranamente il suo consenso. La risoluzione 194 dell'Onu, che per decenni ha impedito la pace promettendo ai palestinesi un illusorio ritorno, viene di fatto superata. La Montagna dei templi passerebbe sotto sovranità palestinese, ma un'autorità internazionale ne assumerebbe il controllo. La maggior parte degli insediamenti israeliani verrebbe abbandonata (quasi del tutto in Cisgiordania, completamente a Gaza) ma lo Stato israeliano potrebbe mantenere una decina di cruciali colonie: circa 300 coloni resterebbero sotto la sua giurisdizione. In cambio, la Palestina riceverebbe porzioni di terra adiacenti la striscia di Gaza, nel Negev. L'ordine e la pace in Medio Oriente dovevano essere uno dei principali risultati dell'operazione in Iraq, assieme alla democratizzazione del mondo arabo-musulmano. Proprio qui l'America si mostra più incapace, se non fallimentare: la guerra nel Golfo non solo ha moltiplicato l'antiamericanismo e il terrorismo mondiali (lo dimostrano le nuove minacce di Bin Laden, diffuse ieri) ma ha anche condotto alla paralisi le relazioni Israele-Palestina. L'Europa ha la possibilità, qui, di mostrare vera autonomia. Autonomia non è mero capriccio di un figlio poco ubbidiente al padre-tutore. Non è il figlio che vuol diventare sovrano come ha tentato di esserlo il padre. Unica grande sconfitta è la sovranità assoluta degli Stati - in questa guerra irachena per metà vinta e per metà persa - e sconfitti sono coloro che hanno creduto o credono di poter fare da soli: senza osservare leggi internazionali superiori alla propria, senza tentare coalizioni di Stati veramente ampie, rappresentative. Sono sconfitti nel campo della guerra Bush e Blair. Sono sconfitti nel campo della pace Chirac e Schröder. Ed è sconfitto Sharon, in Israele. Questa potrebbe essere la conclusione cui giunge l'Europa, se non si limiterà a essere distruttrice di alleanze e vorrà divenire, invece, costruttrice di alleanze e coalizioni che operino al posto degli Stati sovrani. Per questo è così importante che essa stringa oggi un'alleanza durevole con le forze di pace in Israele e Palestina. Svizzera e Giappone già appoggiano l'iniziativa di Ginevra. Il Consiglio europeo rappresentato dall’Italia potrebbe fare altrettanto, prendendo sul serio l'intesa Beilin-Rabbo e incontrando i suoi portavoce. È importante che l'Europa apra a questi possibili alleati, forte della riconciliazione con l'America. Autonomia per l'Unione europea non è né unilateralismo né corsa gratis, ma è la volontà di dare a se stessa una legge, un nòmos, che aiuti a rinvigorire la dissuasione militare degli occidentali e la credibilità delle coalizioni democratiche. Probabilmente ha ragione William Pfaff, editorialista sull’Herald Tribune: intervenire in Medio Oriente sostenendo le sue forze di conciliazione e di pace è oggi l'aiuto più autentico che l'Europa può dare non solo a se stessa, ma anche all'America.
E quello di Mario Vargas Llosa: DA quando un mese fa sono arrivato a Washington continua a stupirmi la mancanza di imparzialità con la quale, quasi senza eccezione, i grandi mezzi di comunicazione degli Stati Uniti affrontano il conflitto israelopalestinese. I giornali e la televisione forniscono resoconti dettagliati delle stragi e le tragedie subite dalla popolazione civile israeliana per via degli attenti suicidi dei terroristi palestinesi e descrivono lo stato di insicurezza, la paura e le torture psichiche di cui è vittima la società israeliana a causa dell'immensa crudeltà dei fanatici di Hamas e della Jihad Islamica, pronti a diventare bombe umane e a far saltare bus, caffè, discoteche e ospedali. Le immagini televisive illustrano in maniera commovente il calvario delle famiglie di Gerusalemme, Haifa, Tel Aviv o dei territori, dilaniate da massacri che uccidono bambini, anziani, invalidi. La settimana scorsa il New York Times riportava la drammatica testimonianza di un rabbino di Gerusalemme, il quale narrava lo stato di allarme permanente dei suoi concittadini, che in ogni momento, sul bus, al ristorante, al cinema, attendono lo scoppio dell'esplosione assassina e vivono terrorizzati, senza illusioni né allegria, diffidenti, prigionieri dell'angoscia e la paura. In maniera del tutto eccezionale, e per lo più in poche battute e di corsa, i media parlano delle stragi e le tragedie che la società civile palestinese è costretta a subire per mano di Ariel Sharon nel corso delle rappresaglie condotte per vendicare gli attacchi terroristici. Il cittadino statunitense medio, che non legge la stampa europea né guarda la Bbc o i notiziari delle tv europee come faccio io, ignora probabilmente che i bombardamenti degli elicotteri israeliani contro le case di veri o presunti terroristi palestinesi causano molti morti innocenti, e che la demolizione sistematica delle abitazioni e la deportazione di coloro che vengono accusati di partecipare in atti di violenza condannano alla disperazione e talvolta seppelliscono sotto le macerie decine di famiglie altrettanto inermi e innocenti come quelle che sono vittime degli attentati dei fanatici palestinesi. Negli Stati Uniti soltanto una minoranza di politici e intellettuali è al corrente dell'aggressiva strategia di moltiplicazione degli insediamenti israeliani in territorio palestinese che Sharon ha portato avanti fin dal primo giorno di governo con assoluto disprezzo nei confronti dei richiami (timidi, a dir la verità) con cui Washington, il suo migliore (e unico) alleato, si ostina a spiegare quello che il leader del Likud sa benissimo e si è dato come obiettivo: questa politica non porterà mai vera pace in Medio Oriente. Così, per la maggior parte degli statunitensi è chiarissimo che, con la sua traiettoria ondeggiante e la sua complicità con iniziative antidemocratiche e violente, Arafat è un grosso ostacolo per la pace. Pochi hanno il sospetto che si possa dire esattamente lo stesso di Ariel Sharon e che la maggioranza degli israeliani ne appoggia l'estremismo. «Le cose cambiano a seconda del prisma attraverso il quale le guardiamo» diceva mio nonno Pedro che amava i proverbi. Se il conflitto mediorientale si guarda con i paraocchi che ho appena descritto, sarà difficile, per non dire impossibile, che l'opinione pubblica degli Stati Uniti eserciti pressioni sul proprio governo affinché da Washington, l'unico posto al mondo da cui può partire, arrivi a Tel Aviv l'indicazione di cambiare politica e sedersi a negoziare con l'Autorità palestinese con qualche speranza di successo. E' vero che, lungi dall'essere attributi esclusivi di Sharon e i suoi seguaci, l'intransigenza e il massimalismo continuano a diffondersi in settori crescenti della società palestinese, spinti fra le braccia degli estremisti dalle infinite sofferenze e dalla frustrazione di una situazione che sembra non avere via di uscita. Ma occorre prendere atto che in Israele è avvenuto altrettanto e che dall'arrivo del Likud la causa israeliana ha perso quella superiorità morale e civica di cui ha goduto fino alla firma degli accordi di Oslo. Gli assassini di Rabin sapevano quel che facevano. La mancanza di imparzialità dell'informazione è il motivo principale per il quale il governo degli Stati Uniti non riesce a facilitare l'accordo di pace, accordo che soltanto Washington può agevolare visto che per la classe politica israeliana l'Unione Europea è un interlocutore screditato, filopalestinese e pervaso dall'antisemitismo. Come se criticare il nefasto governo Sharon, il peggiore nemico che ha avuto la causa d'Israele dall'arrivo dei primi sionisti in Palestina, come fortunatamente fanno molti democratici israeliani, volesse dire diventare complici dei gruppuscoli neonazisti che incendiano sinagoghe o dipingono svastiche nei cimiteri europei. Mentre la qualità dell'informazione non migliorerà, pochissimi politici statunitensi oseranno sfidare i truismi che i mezzi hanno inculcato nell'opinione pubblica del paese. Ne sa qualcosa l'ex governatore del Vermont, Howard Dean, ex favorito fra i precandidati democratici alla presidenza, il quale in un dibattito televisivo con altri precandidati dichiarò che se gli Stati Uniti vogliono esercitare una influenza decisiva nella soluzione del conflitto che affligge il Medio Oriente è indispensabile che si mantengano neutrali nei confronti dei due contendenti, cosa che personalmente trovo del tutto sensata e condivisibile. Un altro precandidato, il senatore Joseph Lieberman, accusò Dean di voler stravolgere la linea diplomatica sostenuta da cinquant'anni. La pioggia di critiche costrinse Dean a fare marcia indietro e, soprattutto, la sua popolarità è crollata: i giornali e i sondaggi, che avevano accolto con beneplacito le sue posizioni socialmente radicali e fiscalmente conservatrici, hanno quasi smesso di citarlo. Non sto insinuando che esista un «complotto giudaico» e che abbia preso in ostaggio i media statunitensi, bensì che le lobby che promuovono la politica israeliana negli Stati Uniti sono incredibilmente efficaci, mentre quelle palestinesi dimostrano una clamorosa inettitudine. Non certo per mancanza di risorse, ma piuttosto per ignoranza dei meccanismi sottili e complicati che governano le istituzioni e il costume degli Stati Uniti, e anche perché spesso si sono accontentate di arrivare ai piccoli gruppi e alle tribune della sinistra radicale, ottenendo effetti controproducenti su quell'opinione pubblica media che conta nella vita politica. Poche settimane fa è morto a New York, vittima di una leucemia che combatteva da anni, uno dei paladini migliori della causa palestinese, Edward Said, un intellettuale di alto livello che era riuscito a darsi ascoltare, o piuttosto leggere, da un vasto pubblico. La scomparsa di Said renderà più marcata l'assenza della causa palestinese dai media degli Stati Uniti. Eppure non dobbiamo essere pessimisti e pensare che la mostruosa carneficina andrà avanti fino all'esaurimento dei contendenti. Proprio oggi ho trovato nelle pagine interne sia del New York Times che del Washington Post una notizia che io avrei messo in prima pagina: un gruppo di uomini politici eminenti sia israeliani sia palestinesi, fra cui l'ex ministro della Giustizia israeliano Yossi Beilin e l'ex ministro dell'Informazione palestinese Yasir Abed Rabbo, ha elaborato un Accordo di pace simbolico che sarà firmato fra qualche settimana a Ginevra. L'Accordo prevede che il nuovo Stato palestinese comprenderà l'intera striscia di Gaza e quasi tutta la Cisgiordania, e avrà come capitale la parte araba di Gerusalemme orientale. Israele conserverà una ventina di insediamenti cisgiordani, i più grossi, cedendo in cambio parte delle regione meridionale, e perderà il controllo sulla Grande Moschea mantenendo la sovranità sul Muro del Pianto. I rifugiati della guerra arabo-israeliana del 1948 e i loro discendenti potranno scegliere fra vivere nel nuovo Stato palestinese, vivere in un paese terzo o ricevere un risarcimento per i beni perduti, rinunciando in cambio alle abitazioni rimaste in territorio israeliano. Il governo di Sharon si è affrettato a respingerla e Arafat non ha fatto commenti, ma è indubbio che si tratta di una iniziativa ragionevole. Oltre a proposte sensate, anche se perfettibili, ha l'enorme virtù di sbloccare un negoziato di pace paralizzato dai due estremismi. Inoltre nasce dalla società civile, da quei settori che non si sono lasciati alienare dall'isteria violenta che ha corroso i due popoli per colpa di coloro che credono che attraverso la forza e il terrore sia possibile imporre una soluzione unilaterale a una tragedia che ha infiammato il Medio Oriente e potrebbe incendiare il resto del mondo. La comunità internazionale dovrebbe sostenerla.
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