Un soldato d'Israele il direttore di Panorama intervista Shaul Mofaz
Testata: Panorama Data: 17 ottobre 2003 Pagina: 40 Autore: Carlo Rossella Titolo: «Israele,la guerra più difficile»
Panorama oggi in edicola pubblica una importante intervista a Shaul Mofaz. Volete un eroe, un coraggioso, un soldato tutto d'un pezzo, un uomo riservato, quasi timido? Ecco a voi il ministro della Difesa dello stato di Israele, il generale Shaul Mofaz. Il suo ufficio nel palazzo più sorvegliato e inaccessibile di Tel Aviv è lo stesso nel quale anni fa stava Yitzhak Rabin: identici i mobili spartani, qualche libro di storia e di strategia, un tavolo e quattro sedie per le riunioni, un computer, l'unica novità.
E poi la grande bandiera di seta, bianca, con la stella azzurra di Davide. Il vessillo dello stato ebraico, in nome e per conto del quale Mofaz ha passato la sua vita combattendo da parà: nella guerra dei Sei giorni, in quella dello Yom Kippur, nell'operazione speciale per liberare gli ostaggi israeliani a Entebbe nel 1976, nella campagna del Libano, in Giudea e Samaria. Dal 1998 al 2002 Mofaz è stato capo di stato maggiore della Difesa. Sposato, padre di quattro figli, è nato in Iran nel 1948, insieme con lo stato di Israele. La sua famiglia è immigrata da Teheran nel 1957.
Appassionato di storia, Mofaz ha frequentato la scuola del Marine corps command a Quantico, in Virginia. Da capo di stato maggiore ha fronteggiato la seconda, sanguinosa intifada, quella dei terroristi e dei kamikaze scagliati contro gli obiettivi civili. Sono quasi 37 anni che Mofaz passa la vita a difendere il suo paese. E vuole continuare a farlo, con forza e determinazione, senza cedimenti. È un falco, così dicono, ma col terrorismo palestinese che fa esplodere i suoi kamikaze nei ristoranti e sugli autobus per sterminare il maggior numero possibile di israeliani non è, purtroppo, il tempo delle colombe.
Signor ministro, il 4 ottobre, pochi giorni fa, a Haifa, una kamikaze palestinese si è fatta esplodere in un ristorante. 19 morti. È il più sanguinoso di una lunga serie di attentati. Quando finirà questo terrorismo? Lo chieda al signor Yasser Arafat. Un anno e quattro mesi dopo l'inizio della seconda intifada, ovvero nel 2001, Arafat radunò i responsabili delle forze di sicurezza e disse loro: «Perché gli israeliani hanno avuto così poche perdite? Datevi da fare». E come si vede i terroristi si sono dati molto da fare, iniziando, da quel momento, un'ondata di attentati suicidi contro Israele. C'è la sensazione che quest'onda sia irrefrenabile. Sensazione sbagliata. Riusciamo a fermare il 97 per cento degli attentatori. Il 3 per cento sfugge alle nostre forze di sicurezza, alle forze armate. Oggi apparite molto determinati, ma all'inizio non fu così. Dopo il terribile attentato di Natanya, il giorno di Pasqua del 2002 (30 morti, ndr), decidemmo di agire con più forza. Abbiamo così distrutto le strutture di Hamas, della Jihad islamica in Giudea e Samaria. E dopo queste azioni la leadership palestinese, i terroristi e la popolazione palestinese stanno capendo che noi vogliamo estirpare, costi quel che costi, il terrorismo. Come valuta questa guerra contro il terrorismo? È la più difficile che abbiamo avuto dalla guerra di indipendenza, perché i terroristi sono contro ogni forma di vita israeliana, contro ogni aspetto della nostra società. Attaccano soprattutto donne, bambini, civili innocenti. In questa guerra muoiono più civili che soldati. Per fermare i criminali dobbiamo continuare con sempre maggior determinazione nella strada intrapresa. Ma nello stesso tempo favorire la nascita di una nuova leadership nel campo palestinese. Credo che il nostro obiettivo sia quello di riportare i palestinesi al tavolo delle trattative. Ma solo dopo un completo smantellamento delle strutture terroristiche in Giudea, Samaria e nella striscia di Gaza. Vogliamo sicurezza. È una parola che si sente ripetere parecchio in Israele... È la nostra esigenza principale. Si ricorderà che il tema chiave dell'intesa di Oslo per noi era la sicurezza. Ma tutto è crollato perché il signor Arafat non ha mai voluto contribuire al raggiungimento di questo obiettivo. E tanto meno lo vuole oggi. Prima di tutto, per noi, c'è la sicurezza, non mi stancherò mai di ripeterlo. E la sicurezza, come dice sempre anche il primo ministro Ariel Sharon, porterà la pace. Non cominceremo nuove trattative con i palestinesi prima di uno smantellamento delle loro attività terroristiche. Dovranno farlo gli stessi palestinesi. E per questa ragione dovranno darsi una nuova leadership che muova in questa direzione. La direzione della road map... Sin dalla riunione di Aqaba, quattro mesi fa, noi abbiamo fatto il nostro dovere per quanto riguarda la road map, un percorso che il nostro governo condivide in pieno. Loro no. Però Abu Mazen, il buon Abu Mazen... Abu Mazen aveva la buona volontà di far cambiare strada ai palestinesi. Ma si trovò davanti ad alcuni ostacoli, primo fra tutti Arafat. Il signor Arafat ha fatto sforzi tremendi per fermare Abu Mazen. Secondo ostacolo sono state le organizzazioni terroristiche palestinesi e i loro protettori nella regione. A chi si riferisce? Soprattutto alla Siria e ai vertici delle organizzazioni palestinesi terroristiche che, come è stato ampiamente provato, hanno base a Damasco. E mi riferisco anche agli hezbollah libanesi che finanziano e addestrano terroristi, hanno rapporti finanziari e danno sostegno logistico alle organizzazioni criminali nei territori. Questi sono i motivi del fallimento di Abu Mazen e della confusione molto pericolosa che si è creata dopo la nomina di Abu Ala. Nessun leader palestinese può avere successo se Arafat continua a esercitare il controllo, a dare ordini agli apparati di sicurezza che in base agli accordi internazionali dovrebbero smantellare il terrorismo ma si guardano bene dal farlo perché Arafat quell'ordine non lo dà. Anzi. È dalla parte dei terroristi. Avete le prove? Abbiamo le prove. Insomma continuate a considerare Arafat un terrorista? Sì, è un terrorista. E questo è il motivo per il quale il governo di Israele ha deciso di cacciarlo dall'area. Abbiamo fatto un errore storico a non espellerlo due anni fa. Durante il periodo in cui sono stato capo di stato maggiore ho sempre chiesto di buttar fuori il signor Arafat, il principale ostacolo sulla via della trattativa coi palestinesi e quindi della pace. Ma fin quando sarà vivo e fin quando sarà il leader dei palestinesi e fin quando risiederà nei territori non credo che la situazione potrà cambiare. Ma quando caccerete Arafat? Un giorno non sarà più qui. Abbiamo avuto tante occasioni per cacciarlo. Ne verranno altre. Sappiamo che è dietro le bombe. Ma aspettiamo il momento opportuno, quando potremo rimuoverlo con la piena comprensione degli altri paesi. Mi riferisco agli Usa e all'Europa. Succederà, vedrà che succederà. Non è questione di anni. Con lui il suo popolo non ha speranze. Porta la sua gente non alle trattative, alla pace, ma in un tunnel senza luce. Controlla il terrore e controlla i soldi... I famosi e lauti finanziamenti dell'Anp e del terrorismo. I finanziamenti, dopo Arafat, sono la seconda questione principale (l'Europa e i paesi arabi hanno sempre riempito i palestinesi di denaro, ndr). Per me i soldi che vengono dall'estero sono il carburante del terrorismo. Lei saprà che negli ultimi tre anni fondi immensi sono arrivati dai paesi arabi, dall'Iraq di Saddam, dalla Siria, dall'Arabia Saudita e dall'Iran. Ha fatto bene il vostro primo ministro, Silvio Berlusconi, a proporre all'Europa di bloccare i fondi per Hamas e le altre organizzazioni. Questa decisione presa al vertice di Gardone Riviera ci ha molto aiutato. Se si bloccano le vie del denaro, i terroristi e i loro complici restano all'asciutto. Ci sono voluti molti sforzi per convincere alcuni paesi europei a chiudere le autostrade finanziarie per Gaza e Ramallah, e lo sa bene anche il ministro italiano degli Esteri, Franco Frattini. Ma l'Europa è spesso critica verso Israele. La vostra recente operazione militare contro il campo di addestramento dei terroristi in Siria è stata criticata a Bruxelles. Da Damasco partivano, e ancora partono, ordini per le organizzazioni terroristiche che operano nei territori. La Siria autorizza gli hezbollah libanesi a utilizzare quel paese arabo come una piattaforma armata contro di noi. In più c'è un pericoloso link fra Siria e Iran. Da Teheran arrivano armi e razzi, sbarcati negli aeroporti siriani e intercettati dagli hezbollah che li usano contro di noi. Lei sa che la Siria fa da retrovia e da ufficio transito ai terroristi che vanno in Iraq a combattere contro gli americani e i loro alleati? Sa che in Libano, nei campi palestinesi, Al Qaeda ha basi di addestramento? Per questo abbiamo mandato un forte messaggio alla Siria. Da tempo avevamo fatto pervenire avvertimenti per via diplomatica a Damasco, ma non sono bastati. E ancora oggi non è successo nulla. Ma stiano attenti. Molto attenti. Non accetteremo più il loro sostegno ai criminali. La Siria deve smantellare tutto, in Siria e in Libano. L'Europa, e lo ha fatto anche Romano Prodi, presidente della Commissione europea, vi critica per aver costruito, dentro e ai confini dei territori, una barriera difensiva contro il terrorismo. Lei ne è stato uno dei teorizzatori. Come si giustifica? Chi ci critica sbaglia. E spiego perché. Prendiamo l'esempio di Gaza, dove abbiamo una barriera difensiva da tre anni. Nessun attentatore suicida è mai riuscito a varcare quella barriera e a penetrare in territorio israeliano; 400 terroristi sono stati catturati o uccisi lungo la barriera a Gaza. Nello stesso tempo tutti i kamikaze che si fanno esplodere in Israele vengono dalla Giudea e dalla Samaria, dove non abbiamo strutture di protezione. Non credo che la barriera sia la soluzione definitiva del problema, ma un importante ostacolo per i terroristi lo è senza dubbio. Quando l'opera sarà terminata ci sentiremo più sicuri. Noi abbiamo il diritto di difenderci. Abbiamo dato spiegazioni agli americani e ci hanno capito. L'America sa che la road map non può fare passi avanti in questa situazione, con Arafat che ostacola il processo di pace. Oltre al muro, contro i terroristi di Gaza avete organizzato operazioni aeree chirurgiche, bombardando le loro case. Alcuni piloti si sono rifiutati di entrare in azione, hanno scritto lettere ai giornali. Parliamo di 28 piloti della riserva dei quali 18 non sono operativi e due hanno cambiato idea. Vediamo i rimanenti. Non continueranno più a essere operativi. Punto e basta. Ma non ci preoccupiamo. Vede questa lettera di sostegno? È firmata da centinaia di piloti che chiedono di entrare in azione. Ma costoro non hanno scritto ai giornali come i loro colleghi. Si sono rivolti al loro comando. Così fanno le persone serie. Lei non si è mai tirato indietro. Ha combattuto in guerra. Qual è il messaggio che rivolge al mondo, soprattutto a quelli che non riconoscono le ragioni di Israele? Nella regione in cui noi viviamo, il Medio Oriente, non c'è ancora la percezione che Israele sia lo stato del popolo ebraico. E che lo sarà per sempre. I paesi ostili credono che un giorno saranno capaci di distruggere lo stato di Israele. E non accettano Israele come uno stato ebraico che ha il diritto di esistere per sempre. Devono sapere, lo dico dopo 36 anni di servizio nell'esercito, e da ministro della Difesa, che la nostra lotta per l'indipendenza e l'esistenza di Israele, patria di ogni ebreo della terra è il nostro principale obiettivo per il futuro.
MA NON CHIAMATELO MURO
Le speranze legate alla barriera protettiva tra Territori e Israele
Certi giornali e certi politici (lo ha fatto, purtroppo, anche Romano Prodi, presidente dell'Ue) lo chiamano «muro». Ma è un errore, un grossolano errore. Il termine tecnico esatto è «barriera protettiva», di filo spinato e non di cemento. Il tratto con pannelli di cemento armato è lungo 4 chilometri e serve a difendere l'autostrada dai cecchini palestinesi che sparano sulle vetture israeliane dalla cittadina di Qalquilia (hanno ammazzato a fucilate bambini innocenti). La linea protettiva, un reticolato per impedire infiltrazioni di terroristi e il passaggio di armi fra la Giudea e la Samaria e il territorio israeliano, sarà lunga, una volta terminata, 600 chilometri: corre lungo tutto il confine fra Israele e le zone abitate da palestinesi, addentrandosi qua e là per proteggere meglio i villaggi israeliani e girando attorno a Gerusalemme est. Sinora sono stati completati 150 chilometri, ma nel giro di un anno e mezzo l'opera sarà terminata. «In pratica faremo quel che abbiamo fatto intorno a Gaza» dice a Panorama il colonnello della riserva Nezha Mashiah, capo del progetto chiamato Seam line. Ottocentocinquantasei cittadini israeliani, tutti civili, sono stati uccisi da terroristi palestinesi suicidi da quando è scoppiata la seconda intifada. Il prezzo che Israele ha pagato è stato molto alto. E per impedire future infiltrazioni la barriera diventa indispensabile. Attraversando territori palestinesi il reticolato creerà problemi ai contadini, che vedranno i loro campi divisi. Le autorità governative israeliane hanno però previsto, oltre ai normali passaggi vigilati di frontiera, una serie di varchi speciali, aperti in certe ore della giornata, e controllati dai militari. Permetteranno il transito di uomini, trattori e carri. L'opera, indispensabile nella attuale situazione, ha un prezzo molto alto: 2 milioni di dollari al chilometro, in tutto oltre 2 miliardi di dollari. Ma i contribuenti israeliani vedono la barriera protettiva come un rimedio essenziale contro gli attacchi suicidi. Da quando Gaza è stata circondata dal reticolato nessun terrorista è riuscito a passare. E ogni volta che un kamikaze colpisce Israele tutti gridano alla necessità di terminare l‘opera al più presto. Per questo motivo l'opinione pubblica israeliana ha reagito con indignazione alle dichiarazioni di Prodi contrarie a questo sistema di difesa. «Provi lui a vivere coi terroristi alle porte» dicono al ministero della Difesa.
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