Parla Richard Perle Il leader neocon più ascoltato da G.Bush
Testata: La Stampa Data: 17 ottobre 2003 Pagina: 2 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Ma Europa e ONU continuano a non capirci»
Ottimo il colpo giornalistico che Fiamma Nirenstein ha piizzato intervistando a Gerusalemme Richiard Perle, uno dei più ascoltati leader neoconservatori americani. Perle: fingono di ignorare la portata della guerra integralista all’Occidente
GERUSALEMME INCONTRIAMO Richard Perle a Gerusalemme, dove ha ricevuto il premio Henry Jackson, dal nome del senatore democratico suo mentore e grande combattente, come Perle stesso, di molte battaglie per i diritti umani. Perle è stato viceministro della Difesa, è responsabile della parte strategica dell'American Enterprise, un think tank vicino alla Casa Bianca, è membro del Comitato per la difesa del Pentagono. Ma innanzitutto è uno degli uomini più influenti degli Usa, data la sua vicinanza con il Presidente e la sua indiscussa leadership rispetto a tutto il gruppo dei neoconservatori, sostenitori convinti di una guerra senza quartiere contro il terrorismo. Il gruppo ha denunciato più volte l'opposizione profonda di una parte dell'Europa e dell'Onu alla guerra in Iraq e in genere alla politica americana: «Una posizione miope e colpevole - dice Perle - che finge di ignorare l'importanza della terribile guerra integralista in corso contro la democrazia liberale, la libertà, i diritti umani, tutto quello che l'Occidente rappresenta». Ma adesso con il voto unanime alla risoluzione dell'Onu dobbiamo considerare la disputa sull'Iraq almeno in parte conclusa? Possiamo aspettarci, dopo molte parole, una concordia effettiva da parte dell'Onu e delle nazioni europee per aiutare l'Iraq a stabilire la sua indipendenza? «E' presto per un giudizio su ciò che è accaduto ieri. Ma in generale direi che a tutt'oggi l'Europa e l'Onu non hanno dato segno di capire il significato morale e l'indispensabilità della guerra condotta dal presidente Bush. L'Europa simpatizza assai poco con l'idea che ci accompagna in ogni momento: anche se non vediamo le armi di distruzione di massa di Saddam (sulla cui esistenza non ho dubbi) abbiamo liberato un popolo intero da un tiranno senza limiti di crudeltà. E abbiamo spento uno dei vulcani che eruttano terrorismo internazionale». Forse però la risoluzione pone fine alla solitudine americana. «Ciò di cui veramente l'Iraq ha bisogno fino a che non sia in grado di camminare sulle sue gambe è aiuto, aiuto economico. Il denaro è la cosa di cui più di tutto l'Iraq ha bisogno. Ed è ridicolo, anzi insultante, che l'Europa abbia stanziato 233 milioni di euro in tutto. L'Iraq non ha bisogno di ricostruzione, dato che è stato poco danneggiato, ma di costruzione: le infrastrutture sono obsolete, occorre un grande sforzo per garantire il benessere. L'Iraq, mentre tutte le belle parole sul suo autogoverno verranno dimenticate, non dimenticherà - ed è bene che la Francia e la Germania ci pensino - la somma data dall’Unione europea: 233 milioni di euro, una vergogna». L'Europa e l'Onu hanno continuato a criticare gli Usa soprattutto per la sua teoria dell'attacco preventivo. Pensa che il clima di conciliazione internazionale favorisca un ripensamento americano? «Che intende? Che la guerra al terrorismo si è conclusa? Che l'Onu ha finalmente deciso di combatterla attivamente? No: noi non abbiamo il diritto di abolire dalla nostra strategia il buon senso, l'idea che è indispensabile colpire laddove stanno per colpirci; siamo vulnerabili alle armi chimiche e biologiche, siamo vulnerabili al terrorismo, ed è più che legittimo proteggerci dal terrorismo che può farne uso e anzi lo promette». Tuttavia questa politica così limpida vi mette nei guai in Iraq, e dall’altro giorno anche a Gaza. Il terrorismo invece di placarsi si scatena. «Sia chiaro: in Iraq le cose vanno molto meglio di quello che si crede comunemente. Quasi l'intero Paese, nella sua vastità, è pacifico; le fazioni, le sette, le religioni non si combattono reciprocamente; ogni città ha un suo Consiglio locale funzionante, ovunque vigeva la dittatura del Baath si raggiungono accordi; non ci sono senzatetto né gente che muore di fame; le strutture mediche funzionano; l'acqua scorre ovunque, l'elettricità c’è. L'aspetto negativo è il terrorismo, che vuole impedire il progresso in Iraq: è perpetrato da una parte dagli orfani di Saddam, dalla sua gerarchia che torturava, imprigionava, rubava. E' logico che oggi facciano di tutto per tornare al passato. Ricordiamoci che in Francia ci furono 10mila vittime nello scontro civile del dopo-Seconda guerra mondiale. Anche l'Italia sa qualcosa di fascisti, collaborazionisti e guerra civile. In secondo luogo ci sono le schegge del terrorismo internazionale, i sauditi, gli egiziani, i palestinesi, i siriani, gli iraniani che si sono dati appuntamento perché pensano che l'Iraq sia un buon posto per combattere l'Occidente, fortemente seguito dai media, facile da raggiungere». Come andrà a finire, dunque? «Io sono molto ottimista sul lungo termine. Quando prendemmo Baghdad pensai che 18 mesi sarebbero bastati per andarcene: anche oggi la vedo così. In generale, vedo l'opposizione iraniana prendere forma e combattere, la Siria venire allo scoperto presa dalla paura, il Libano scosso dagli eventi, vedo che l'integralismo islamico e i regimi dittatoriali e dispotici del Medio Oriente ormai non trafficano più in aiuti e in finanziamenti quanto vi erano abituati. Anche se ancora le opposizioni, specialmente in Iran, non ricevono abbastanza aiuto, pure crescono, diventano sempre più credibili e audaci, e il processo di trasformazione annunciato da Bush nel giugno 2001 va avanti». Cosa dice dell'attacco palestinese al vostro convoglio a Gaza? «Che chiunque si illudeva che gli americani sono salvi mentre il terrore attacca gli israeliani o chi altro, si sbaglia. La guerra del terrorismo non conosce confini né appartenenze nazionali. E' l'Occidente il suo confine, è la democrazia. E questo attacco non può certo restare senza risposta».
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