Attentato a Gaza visto dall'America e da Gerusalemme
Testata: La Stampa Data: 16 ottobre 2003 Pagina: 5 Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari Titolo: «Gaza, bomba contro gli americani»
Sull'attentato di ieri al convoglio americano sul quale viaggiavano alcuni diplomatici americani, riportiamo due articoli pubblicati su La Stampa di oggi, giovedì 16 ottobre 2003.
Il primo articolo è firmato da Maurizio Molinari, "Stroncate il terrore o addio all'indipendenza": Evacuazione di tutti i cittadini da Gaza, richiesta all'Autorità palestinese di smantellare i gruppi terroristi e un avvertimento ai responsabili dell'attentato: «Vi prenderemo». L'amministrazione Usa reagisce all'agguato in cui sono stati uccisi tre agenti della sicurezza trattando la Striscia di Gaza come un nuovo fronte della guerra al terrorismo iniziata l'11 settembre 2001 e il presidente George W. Bush avverte i palestinesi: «Se non combattete il terrorismo per voi il sogno dell'indipendenza si allontana». I primi elementi raccolti dagli agenti dell'Fbi inviati nel Nord della Striscia confermano che l'attentato era mirato contro gli americani: nella stessa zona un agguato analogo era fallito la settimana precedente, il convoglio di jeep nere era un segno di riconoscimento degli americani, mentre l'esplosione è avvenuta appena passata l'auto della scorta palestinese. «Chi ha attivato il comando a distanza conosceva la composizione del convoglio ed ha voluto colpire l'auto della sicurezza americana» spiega una fonte diplomatica a Washington, aggiungendo che «l'esplosivo adoperato era di notevole potenza». Precisione delle informazioni ed entità dell'ordigno usato suggeriscono all'Fbi che gli esecutori non possono essere un gruppo locale o una cellula isolata. Poche ore prima dell'attentato gli Usa avevano posto all'Onu il veto a una risoluzione siriana contro la barriera difensiva che Israele sta edificando in Cisgiordania, ma gli investigatori non arrivano a ipotizzare un collegamento fra i due eventi per via dei tempi necessari per organizzare l'agguato. Le indagini seguono la pista di un’«importante organizzazione terroristica» anche se è presto per dire chi potrebbe essere: Hamas o Jihad, che si sono affrettati a negare qualsiasi coinvolgimento; Al Qaeda di cui da tempo tanto gli israeliani che l’Anp hanno denunciato i tentativi di infiltrazione nei Territori; cellule degli Hezbollah o di una nuova organizzazione anti-Usa. In attesa di avere più elementi a disposizione, la Casa Bianca affronta l'emergenza applicando i criteri post-11 settembre. Il Segretario di Stato, Colin Powell, ha chiesto al premier palestinese Abu Ala «di compiere passi concreti per porre fine alla violenza e al terrorismo». L'espressione è simile a quelle già adoperate dopo gli attentati anti-israeliani, ma questa volta l'enfasi è differente perché si è trattato di un attacco agli Usa. Se l'Autorità nazionale palestinese (Anp) non dovesse riuscire a catturare i responsabili gli Stati Uniti sarebbero pronti ad agire da soli: «Inseguiremo gli attentatori ovunque, finché non saranno presi e portati di fronte alla giustizia» dice il portavoce del Dipartimento di Stato Brooke Summers. L'ordine di evacuazione di tutti i cittadini americani da Gaza, emanato poche ore dopo l'agguato, trasforma la Striscia in una zona considerata ostile e che potrebbe diventare teatro di operazioni anti-terroriste sul modello di quelle già condotte in altri Paesi. La dottrina della guerra preventiva che guida le mosse dell'amministrazione è esplicita: «Se un governo locale non persegue chi uccide cittadini americani spetta agli Stati Uniti consegnarli alla giustizia». Il presidente Bush nel condannare l'attentato ha puntato l'indice contro l'incapacità dell'Anp di garantire la sicurezza nei propri territori: «Da tempo avrebbero dovuto agire contro il terrorismo, il non averlo fatto continua a costare vite umane, serve un premier che controlli le forze di sicurezza e faccia le riforme bloccate da Arafat». E ancora: «Il fallimento nelle lotta al terrorismo e nelle riforme è il più grande ostacolo al raggiungimento dell'indipendenza». Il messaggio è ai vertici dell'Anp: ospitando gruppi terroristici allontanano l'indipendenza prevista della Road Map. Tantopiù che il convoglio colpito aveva a bordo «inviati di pace» - come li ha definiti il Segretario di Stato, Colin Powell - in missione per assegnare borse di studio negli Usa. Anche Kofi Annan, Segretario generale dell'Onu, preme sull'Anp: «Consegnino presto alla giustizia i responsabili». A indicare l'emozione causata in America dall'attentato le parole pronunciate dalla First Lady, Laura, da Santo Domingo: «Il mio cuore è con i parenti delle vittime di questo attacco mirato, che lavoravano per creare una società civilizzata antidoto contro il terrorismo». Segue l'intervista a Daniel Pipes di Fiamma Nirenstein. IL professor Daniel Pipes, americano, una celebrità nel campo degli studi sul Medio Oriente e l'Islam, è stato recentemente designato da George Bush a far parte della direzione del Consiglio per la pace, un organismo governativo che studia la strategie americane. Una scelta contestata: Pipes è noto per il suo diretto e duro approccio al problema del terrorismo. Lo incontriamo a Gerusalemme dove partecipa a una conferenza del Jerusalem Center sul tema: «Costruire la pace sulla verità». Pipes è in partenza per un giro di conferenze in Germania e poi a Roma, dove parlerà alla fondazione Magna Charta. E’ molto dispiaciuto ma non sembra sorpreso dall'attacco terroristico a Gaza contro un convoglio diplomatico americano. Non è una scelta enormemente compromettente per il terrorismo palestinese? Una scelta che lo mette definitivamente nello stesso paniere di Al Qaeda? «E' presto per speculare troppo in profondità. Quello che si può dire è che per l'integralismo islamico tutta la zona del conflitto israelo-palestinese è zona di guerra, Dar el-Islam, contro l'Occidente usurpatore, coloniale, peccatore, che si tratti di israeliani, di americani o di chiunque altro che non appartenga all'Islam. Il territorio del conflitto israelo-palestinese è enormemente centrale per gli integralisti, siano essi terroristi autoctoni di Hamas e della Jihad, o infiltrati da altri Paesi e appartenenti ad altre organizzazione, come Al Qaeda o Hezbollah. Bisogna ricordare che questa terra non è stata cristiana o ebraica per secoli, fino al mandato britannico. Gli americani sono i nemici occidentali per eccellenza: la frustrazione musulmana dell'ultimo mezzo secolo nell'area del conflitto israelo-palestinese è più acuta, qui dà luogo alle maggiori esplosioni, e la sua posizione geografica la rende centrale». Ma un attacco come questo ha un connotato irrazionale, autolesionista, come si vede dalle condanne che provengono dall'Autorità palestinese, da Arafat e da Abu Ala. C'è differenza fra l'atteggiamento della leadership e quello di chi ha perpetrato l'attacco? «E’ difficile dirlo oggi. Quello che si può certo affermare è che, se l'attacco è palestinese, in comune tra Arafat e i gruppi integralisti religiosi c'è l'ambizione a conquistare tutta intera la terra di Palestina; Hamas e la Jihad Islamica lo dicono chiaramente, cacceremo tutti gli ebrei, batteremo l'Occidente corruttore. Arafat invece preferisce conservarsi l'amicizia europea con varie mosse accattivanti che però non incidono sulla sostanza della scelta; l'uso del terrorismo, poi, è un'arma strategica per tutti, anche se Arafat può talvolta condannarlo in inglese, mentre Hamas lo esalta apertamente anche davanti alle telecamere della Cnn. In una parola, la terra nella jihad ha un valore sacro a tutti: chi secondo la religione e la politica che ne viene ispirata la occupa, come Israele, o la domina, come gli americani, è oggetto di odio e può essere attaccato da tutti i jihadisti». Secondo questa visione Israele non ha legittimità, ma è una terra occupata con intenti coloniali dagli ebrei «profeti» degli americani e quindi, in defintiva, anche dagli americani. «Proprio così: vorrei aggiungere che la lettura della storia che gli europei danno aiuta questa interpretazione coloniale, che spinge alla jihad. Forse l'Europa proietta su Israele e l'America il suo proprio passato coloniale; forse, frustrata nei suoi tentativi di partecipare a trattative di pace parteggia senza condizioni per la restituzione appunto, delle "colonie", come si trattasse dell'Algeria, o di una lotta anti-apartheid». Come giudica la reazione di Sharon al terrorismo? I suoi duri attacchi in Cisgiordania? «Li giudico decisi, consistenti. Penso che Sharon si muove fra due barriere. Da una parte quella della deterrenza verso il terrore, dall'altra quella dei buoni rapporti con l'amministrazione americana. Da qui, forse, nella storia israeliana in genere, anche l'errore principale nelle trattative di pace, che continuano fino alla Road Map ma hanno il loro principale picco con l'accordo di Oslo». Ovvero? Quale errore? «Di gran lunga il più importante è quello di accettare una trattativa con un nemico che non riconosce la legittimità alla tua esistenza. La decisione di distruggere Israele non è stata mai annullata: nel ‘93 era stata messa momentaneamente da parte in un momento di debolezza, dopo la Guerra del Golfo. Nel 2000, una volta pronte le armi, Arafat la recuperò, anche ispirato dal ritiro israeliano dal Libano. Tutti i programmi nazionali e internazionali per promuovere uno Stato palestinese, erano e sono prematuri: migliorare il sistema palestinese, creare una zona cuscinetto, combattere la corruzione, fare un Piano Marshall, creare una forza internazionale, uscire unilateralmente, lasciare i Territori o quant'altro... possono essere tutte ottime idee se i palestinesi accetteranno, dimostrandolo nei fatti, uno Stato ebraico. Altrimenti tutto è buttato al vento, è polvere e esplosioni, è arena di terrorismo. Ci vorrà tempo perché i palestinesi capiscano che il vecchio gioco è finito. Ma anche ci volessero vent’anni, prima comunque la pace non sarà possibile». 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