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La Stampa Rassegna Stampa
09.10.2003 Conoscere il passato
per capire il presente

Testata: La Stampa
Data: 09 ottobre 2003
Pagina: 28
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «La guerra lampo del '67»
E'uscito in questi gioni da Mondadori il libro di Michael Oren "La guerra dei sei giorni", che consigliamo ai lettori di IC. Lo recensisce oggi sulla Stampa Elena Loewenthal con l'articolo che pubblichiamo.
IL 4 giugno Katriel Katz, ambasciatore israeliano a Mosca, perse la calma. Convocato al Cremlino, si era sentito rimproverare da Gromyko per la «frenesia bellica» del suo paese: «Al Cairo e a Damasco s'invoca l'annientamento di un paese confinante, i leader arabi chiedono il genocidio, e io vengo convocato al ministero degli Esteri di una nazione amante della pace per vedermi consegnare un monito rivolto a Israele?», rispose.
Circa due settimane prima, nella seconda metà di maggio del 1967, le truppe Onu avevano precipitosamente sgomberato il campo lungo la linea di sicurezza (sic!) nel Sinai e nella striscia di Gaza, su imperioso invito dell'esercito egiziano e del presidente Nasser. La mossa, vuoi pusillanime vuoi cinica, dell'allora segretario delle Nazioni Unite U-Thant, destò stupore quando non sconcerto: prima di prendere la decisione il segretario non si era consultato nemmeno con i paesi che avevano truppe nella regione. Né aveva mai rivolto a Nasser un appello per scongiurare la guerra.
Eppure il massiccio, quasi teatrale schieramento di forze di terra sul confine con Israele, fu per l'Egitto un tragico errore. Dopo la chiusura dello stretto di Tiran alle navi israeliane, dopo una serie di incursioni da Siria e Giordania, alle 7 e dieci del 5 di giugno i primi velivoli israeliani decollarono. Venti minuti più tardi erano in volo quasi duecento aerei, in stretto silenzio radio. Volavano bassi, spesso a non più di 15 metri dal suolo, per evitare i radar. Alle 10 e trentacinque di quella stessa mattina Motti Hod, comandante dell'aviazione militare, comunicava a Yitzhak Rabin, capo di stato maggiore: «l'aviazione egiziana ha cessato di esistere».
Fu questa la più spettacolare fase di quella che il mondo arabo chiama «guerra di Giugno» ma è più comunemente nota come «guerra dei Sei Giorni». Nel terzo dei quali scoppiò e si spense con quasi la stessa rapidità anche la battaglia per Gerusalemme. A pochi metri dalla Città Vecchia sino ad allora in mani giordane, Israele lanciò un appello a re Hussein, chiedendo una garanzia di cessate il fuoco e la possibilità di un incontro fra i rappresentanti dei due fronti per avviare «una pace permanente» che avrebbero evitato l'invasione. «La Giordania è al limite della pazienza!» esclamò il sovrano, prima di trincerarsi dietro un equivoco silenzio che gli costò infine la perdita della sua parte di Gerusalemme.
Fu una guerra fulminea, fra le più brevi della storia, carica di colpi di scena e aperta su tanti, diversi fronti. Oggi diventa un libro che non è soltanto una ricostruzione minuziosa e documentata, ora per ora, di quei giorni, ma anche uno strumento essenziale per comprendere ciò che accadde dopo e che ancora accade in Medio Oriente: Michael Oren, La Guerra dei Sei Giorni. Giugno 1967: alle origini del conflitto arabo-israeliano (traduzione di Massimo Parizzi, Mondadori, pp. 552, euro 22,00).
All'indomani del conflitto, Israele si ritrovò ad occupare un territorio tre volte più grande di quello che stava entro i propri confini (vi era compreso peraltro, e in percentuale maggioritaria, quel Sinai poi restituito all'Egitto). Dopo il cessate il fuoco, Israele chiese di risolvere subito la questione dei profughi nel contesto di un trattato globale di pace. Gli stati arabi rifiutarono. Per un milione e duecentomila palestinesi iniziava quel dramma che sta ancora sulle prime pagine dei giornali. Contemporaneamente, ripresero persecuzioni ed espulsioni di ebrei dai paesi arabi, a Tripoli e al Cairo, Damasco, Baghdad. La dirigenza israeliana capì ben presto che i territori occupati avrebbero rappresentato una questione spinosa: «Aspetto che squilli il telefono», disse Moshe Dayan, nella speranza che i paesi arabi si muovessero per avviare i colloqui di pace. Il 19 giugno il consiglio dei ministri d'Israele aveva segretamente deciso di cedere Sinai e alture del Golan in cambio di trattati di pace con l'Egitto, a condizione che alcune aree fossero smilitarizzate e che fosse garantita la libertà di navigazione nello stretto di Tiran, sul Mar Rosso (che era stato il più vistoso casus belli). Nessuna decisione fu presa sul futuro della Cisgiordania, in quel momento ancora - almeno ufficialmente - pertinente al regno di Hussein: molti membri del governo d'Israele speravano di crearvi da subito un'entità palestinese autonoma. Ma tutto ciò cui si riuscì faticosamente ad arrivare fu la risoluzione Onu 242 del 22 novembre, dove si chiedeva a Israele il ritiro «da territori occupati nel recente conflitto», nell'ambito dei «principi per una giusta e durevole pace in Medio Oriente»: ne uscì una regione, conclude Oren, «di potenziali promesse ma anche di pericoli incombenti». Quell'intreccio di incubi e speranze cui ancora ogni giorno assistiamo.





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