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La Stampa Rassegna Stampa
05.10.2003 Un titolo pazzesco
per un articolo, a voler essere buoni, ambiguo

Testata: La Stampa
Data: 05 ottobre 2003
Pagina: 9
Autore: Carla Reschia
Titolo: «Diventare guerriere,unica parità possibile»
Accanto alla cronaca della strage di Haifa e all'analisi di Fiamma Nirenstein La Stampa pubblica un articolo di Carla Reschia, nuova firma del quotidiano torinese. Già il titolo fa sobbalzare. Ma come, l'unica parità possibile è diventare guerriere (leggi terroriste-suicide) ? Il titolo non contine alcuna critica alla società palestinese, reale responsabile della condizione delle donne. Scritto così sembra quasi un invito. Sensazione che viene confermata dalle ultime righe. Anche qui il responsabile è Sharon, e la condizione palestinese viene descritta in modo tale da lasciare la sgradevole sensazione che l'unica via d'uscita rispettabile per un-una palestinese sia farsi saltare in aria uccidendo più israeliani possibile.
Diventare guerriere
unica parità possibile


Due le opzioni: farsi
esplodere in prima
persona o spingere
i propri figli a fare
attacchi suicidi

AHMED Yassin, lo sceicco cieco, leader spirituale di Hamas, su «Al Hayat» ha detto chiaramente che la giudica un’invasione di campo: «La donna è la seconda linea difensiva contro l'occupazione, perché è lei che alleva gli orfani e si oppone a chi impone il blocco economico e affama la nostra gente». Un ruolo che non lascia spazio a iniziative guerriere. Ma è in minoranza: nel mondo islamico le donne kamikaze non spiacciono nemmeno ai guardiani più severi dell'ortodossia perché, almeno nell'obbligo alla Jihad - che i moderati intendono come sforzo spirituale verso una vita più religiosa e i fanatici come guerra santa - non si fanno distinzioni di sesso. Proprio Hamas, che inizialmente aveva condannato il fenomeno, si è poi convinta che le donne possano essere bombe umane perfette, fino a lanciare sul proprio sito web una campagna di reclutamento al femminile. Due le opzioni: farsi esplodere in prima persona o incoraggiare i propri figli a prendere parte ad attacchi suicidi.
«Istruisci una donna ed avrai istruito tutto il mondo», recita, certamente a tutt'altro proposito, il Corano. Secondo Hassan Yusef, portavoce in Cisgiordania dell'organizzazione islamica, «le donne musulmane possono partecipare alla Jihad e quindi alla lotta armata. Anche il profeta Maometto ha sempre difeso questo diritto». Una scelta popolare - in un sondaggio condotto a Nablus il 64% degli intervistati si è detto a favore delle donne-bomba - e appoggiata da un modello storico. Quello di Aisha, la moglie adolescente di Maometto che, secondo la tradizione, da vedova partecipò, sia pure come spettatrice, alla battaglia di Bassora, contemplando lo scontro in groppa a un cammello. Persino la cattolicissima Giovanna D'Arco è stata recuperata da un editorialista di «Al Ahram» in chiave islamica. A lei fu paragonata Wafa Idris, la prima donna kamikaze della nuova Intifada, che si fece esplodere il 27 gennaio 2002 nel centro di Gerusalemme, uccidendo un anziano pensionato, dopo 26 anni di vita passati laicamente a studiare e a lavorare per la Mezzaluna Rossa palestinese.
Fece scalpore e fu subito molto imitata. Ma il fenomeno, a consultare le cronache, non è nemmeno così nuovo. Nella primavera del 1985 Sana Mhaydaleh, una ragazza sciita di 16 anni, si gettò contro un posto di blocco israeliano in Libano, facendosi esplodere e nei mesi successivi il suo esempio venne seguito da altre, con lo stesso obiettivo: l'occupazione israeliana del Paese. In Turchia i curdi avevano già scoperto da tempo i vantaggi delle bombe «rosa»: il 30 giugno 1996 a Tunceli, durante una parata militare, la moglie di un detenuto curdo, nascondendo una bomba sotto un abito premaman, si fece esplodere, uccidendo nove soldati. E se dal Medio Oriente si allarga la ricerca, i precedenti, anche illustri, si sprecano. Contro il «traditore» Rajiv Gandhi, ex primo ministro indiano e figlio di Indira, il 21 maggio 1991 i separatisti Tamil dello Sri Lanka mandarono una donna armata di una ghirlanda di fiori esplosiva, uccidendo insieme a lui e all’attentatrice altri 15 malcapitati. Un'altra donna kamikaze tamil fu protagonista il 18 dicembre 1999 di un attentato eccellente facendosi esplodere a Colombo tra la folla che assisteva ad un comizio della presidente dello Sri Lanka, Chandrika Kumaratunga, che perse l'uso dell'occhio destro.
In Cecenia, dopo la drammatica e misteriosa ecatombe del teatro Dubrovka di Mosca quando le immagini delle sei giovani in chador reclinate come dormienti sui sedili della platea fecero il giro del mondo, vendicare i propri parenti, mariti, amici facendosi esplodere e causando il maggior numero possibile di vittime sembra essere diventato un imperativo delle donne patriottiche.
Anche nella recente guerra irachena le guerrigliere hanno fatto la loro comparsa, recitando tutto il sinistro rituale degli «shaid», compreso il video da diffondere postumo con kefiah in testa, nella mano sinistra un kalashnikov e la destra sul Corano. Alle due giovani, Nur al Shammari e Widad Jamil, che il 4 aprile scorso si erano «sacrificate» per uccidere tre soldati statunitensi a un posto di blocco, Saddam Hussein nei suoi ultimi giorni da Raíss aveva conferito alla memoria prestigiose medaglie promettendo di versare alle famiglie 50 milioni di dinari.
Ma che tipo di segnale rappresenta nel mondo islamico questo tipo di emancipazione? Se per i commentatori più estremisti è la risposta «islamica» alla «falsa libertà occidentale», la versione integralisticamente corretta della blasfema ostentazione di sè e del proprio corpo delle «infedeli», per le dirette interessate sembra a volte l’unica forma di parità possibile in una società allo stesso tempo disgregata al punto da mettere in gioco anche la fonte prima della famiglia. Un’universitaria di Gaza, presentandosi come aspirante kamikaze, aveva detto in un’intervista: «Sharon sappia che ci sono donne palestinesi che non sono inferiori agli uomini nella loro forza e nella loro volontà di sacrificio».




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