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La Stampa Rassegna Stampa
05.10.2003 Israele di fronte al terrore
Dopo la strage di Haifa, una attenta analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 05 ottobre 2003
Pagina: 9
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Cacciare Arafat o terminare il Muro ?»
Con un titolo che non rende giustizia all'articolo, pubblichiamo una attenta analisi di Fiamma Nirenstein sulla situazione che si è creata dopo la strage di Haifa.
Mentre Haifa, simbolo della convivenza pacifica fra arabi ed ebrei, per la quarta volta dall’inizio dell’Intifada subisce un attentato terribile in cui vengono uccisi giovani e bambini, di nuovo alla Muqata si affollano gli scudi umani per difendere Arafat, di nuovo Saeb Erekat chiama in aiuto dei palestinesi una forza internazionale. E’ un paradosso ormai consueto, per cui questo avviene ogni volta che Israele subisce un feroce attacco terroristico. Arafat si prepara, Israele discute, anzi litiga sul ruolo del Raíss nella svolta sempre più fatale del conflitto.
Nelle ore successive allo scoppio il vero teatro delle decisioni è stato concentrato sulla linea telefonica fra Gerusalemme e Washington: come ha detto il ministro della Sanità Dani Naveh, è tornato di grande attualità il problema se sia più caro da pagare il prezzo di avere Yasser Arafat in casa o lontano, in esilio. Due settimane or sono gli Usa prima con le parole di Colin Powell, poi votando insieme alla stragrande maggioranza dell’Onu avevano condannato Israele che aveva minacciato la deportazione e persino l’eliminazione del capo storico dei palestinesi, accusato di essere il continuo, infaticabile, decennale mandante del terrorismo che si interpone fra la la pace e il Medio Oriente.
Questo avveniva dopo il 10 settembre, con il doppio attacco di Tzrifin e di Gerusalemme nel Quartiere tedesco: un attacco molto grosso, che aveva, agli occhi degli Usa, suscitato un legittimo furore, ma non fino al punto di spedire Arafat in esilio. Tutto il mondo aveva preso questa stessa posizione, anzi, molti sostennero che le minacce di Israele avevano restituito ad Arafat una vitalità politica che sembrava perduta; insomma, che era stato un grosso errore. E’ del tutto probabile che dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato adesso vengano le stesse indicazioni: non deportate Arafat, non toccatelo, susciterete un incendio. Al contempo, Sharon ha buoni argomenti per sostenere che la sicurezza dei cittadini viene anche moralmente prima del calcolo politico, e che non si può aspettare lo scoppio del prossimo autobus per porsi sempre le stesse domande.
E dunque? Dunque è realistico aspettarsi un compromesso pratico: l’esercito potrebbe cercare di agire contro le nuove giovani cellule terroristiche della Jihad islamica che hanno rivendicato l’attentato, e anche contro i gruppi di terroristi che agiscono nonostante le eliminazioni dei loro capi più anziani, e lasciare Arafat alla Muqata a due condizioni. La prima, una dura, autentica strigliata americana seguita da un controllo migliore dei suoi rapporti con i vari gruppi e gruppetti di Nablus, Jenin, Hebron. La seconda è la più importante: meno impicci statunitensi per la costruzione della barriera di difesa che ha suscitato in questi giorni furiose polemiche.
Questo argomento è stato di nuovo sollevato da Condoleezza Rice negli ultimi colloqui con Dov Weisglass, l’inviato di Sharon: la preoccupazione espressa è che Israele, costruendo la barriera per impedire ai terroristi di infiltrarsi, di fatto si appropri definitivamente dei Territori anche nella contestata zona di Ariel. Ora, questo nuovo attentato ribadisce la sfida e anche l’utilità della barriera, al di là dei particolari della sua delimitazione, dato che si è svolto in una zona del centro-Nord che dovrebbe venirne protetta. Possiamo dunque ipotizzare che in cambio di un’azione non troppo aspra da parte di Israele gli Usa possano accedere a una revisione della loro posizione sulla sua indispensabilità.
A rivendicare l’attentato è stata la Jihad islamica, ovvero l’unica fra le forze in campo che non ha niente di particolare da temere da Israele. Può essere una vera rivendicazione, oppure può essere la meno «costosa». Arafat, con il suo Al Fatah e le Brigate al-Aqsa, che invece si sono fatte vive solo per lodare l’attentato, è colui che ha più da temere per la sua vita e il suo personale futuro, come dicevamo. Proprio oggi Abu Ala dovrebbe presentare il suo contestato nuovo governo, e certo una sua legittimazione internazionale non trae profitto dall’evento appena occorso; Hamas, non a caso si è astenuto per tre settimane da nuovi attentati, dopo le eliminazioni mirate e i tentativi diretti anche contro lo stesso sceicco Yassin.
La Jihad islamica non è rientra nelle trattattive di Abu Ala per un «governo di unità nazionale» neppure per il futuro, né ha mai dimostrato interesse a una tregua; con forti relazioni internazionali quanto a finanziamenti e a contatti con Siria e Iran, ha in tutto questo periodo mantenuto un basso profilo evidentemente riservandosi la grossa operazione di ieri per creare un caos enorme che si aggiunga a una situazione mediorentale complessivamente infuocata.
Se e quanto Arafat abbia dato una luce verde è impossibile sapere; quello che è certo è che il treno degli attentati, di tutti gli attentati, e ormai lanciato a mille all’ora, e ogni fermata è illusoria.




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