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Il Foglio Rassegna Stampa
23.09.2003 Yasser Arafat, il peggior giocatore d'azzardo
una e mille ragioni per isolarlo dal Medio Oriente e non solo

Testata: Il Foglio
Data: 23 settembre 2003
Pagina: 1
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «Per il Medio Oriente è meglio un Arafat isolato lì dov'è, piuttosto che in esilio in uno studio tv.»
Riportiamo l'articolo di Emanuele Ottolenghi sulla questione Arafat pubblicato oggi, martedì 23 settembre 2003, sull'inserito de Il Foglio.
Di Yasser Arafat si è recentemente detto che è il più inetto dei leader rivoluzionari. A dirlo, per inciso, è stato un suo luogotenente, durante un burrascoso incontro al vertice a Ramallah il giorno in cui il governo Sharon decideva in linea di principio di rimuovere il rais. Ma che conseguenze potrebbe avere l’esilio di Arafat? La comunità internazionale è in subbuglio per il timore, infondato per altro, delle possibili ripercussioni che l’espulsione di Arafat potrebbe avere nella piazza araba. I due anni appena passati avrebbero dovuto chiarire come questa grossolana astrazione dell’opinione pubblica nel mondo arabo e delle sue manifestazioni sia vagamente razzista e rozza, perché ignora come quasi 300 milioni di individui non agiscano all’unisono solo in virtù della loro appartenenza a una comunità culturale religiosa ed etnica, e come in società non libere l’opinione pubblica sia abilmente manipolata dalle autorità. Anche la storia, passata e recente, avrebbe dovuto sconfessare chi si fascia la testa per paura della piazza. Le piazze arabe non si sono mai sollevate efficacemente in moti spontanei che portassero eventualmente al crollo dei regimi. Non esiste memoria di rivoluzione nel mondo arabo, semmai di colpi di Stato militari e complotti di palazzo. Ma il popolo, con tutti i mistici attributi che gli vengono ascritti, assiste passivo alla finestra della storia, tenuto sotto controllo dall’efficacissimo apparato repressivo dei regimi: nessuna piazza si è scatenata di fronte alla guerra in Afghanistan e in Iraq. In quanto alla Palestina, quella romantica passione per rivoluzionari da salotto, il mondo arabo s’offende ma in pratica accetta e tace. La bontà della decisione di esiliare Arafat si fonda allora su un altro criterio. Che il suo esilio sia una buona cosa per il Medio Oriente dipende da come la sua rimozione verrà ricevuta dalla comunità internazionale. Se Arafat passerà il suo esilio in splendido isolamento, protetto da un governo amico ma ignorato dal mondo, esiliarlo sarà buona cosa. Se invece il suo allontanamento da Ramallah gli aprirà di nuovo le porte delle cancellerie occidentali, degli studi televisivi di Bbc e Cnn, le aule magne di università prestigiose e i parlamenti europei, forse Israele farebbe meglio a tenerlo al confino nel suo diroccato quartier generale.

Una collezione di fallimenti
Un Arafat esiliato serve solo per rimuovere un ostacolo alla presa di potere di una leadership palestinese più pragmatica e realista, non per fornire al vecchio rais strumenti più efficaci per ostacolare la pace di quanti ne abbia avuti finora. Se passasse i suoi giorni d’esilio isolato dal mondo, allora liberarsene sarebbe buona cosa. Ma l’esilio nel corrente clima internazionale servirebbe a rafforzarlo. Da chi andrebbe? Da Jacques Chirac? Dal Papa? Da
Massimo D’Alema? Nessuno in Palestina oserebbe sfidarne l’autorità e ostacolarne il ruolo di unico portavoce della causa fintantoché venisse accolto con tutti gli onori da politici e intellettuali. Il vero ostacolo non è quindi la decisione di Israele a rimuoverlo, ma l’incapacità della comunità internazionale a riconoscere la vera natura del vecchio leader palestinese: un uomo che in quarant’anni di indiscussa guida del movimento palestinese ha collezionato fallimenti, perso opportunità, causato disastri alla sua gente per le sue scelte politiche sempre sbagliate, imprudenti o improvvide, e non ha mai avuto la decenza di prendersi le responsabilità e pagarne il prezzo.
Eppure la storia dovrebbe dettare ben diverse conclusioni a chi continua a celebrare Arafat come il líder maximo della rivoluzione palestinese. Arafat conquistò per ben due volte la protezione di due paesi arabi: la Giordania tra il ’68 e il ’70, e il Libano dopo il ’70. Ma in entrambe le occasioni Arafat violò gli impegni presi, complottò contro l’autorità costituita, si creò delle zone di autonomia territoriali dove i suoi guerriglieri sfidarono la sovranità dello Stato ospite, e finì con il minacciare la stabilità interna del paese che gli dava protezione e asilo. La tragedia del Libano fu causata dal ruolo giocato dall’Olp (e fomentato da Arafat) nel deterioramento dei rapporti interetnici che sfociò in guerra civile. La Giordania evitò un simile destino (e la deposizione della monarchia) soltanto a prezzo di un massacro di palestinesi (decine di migliaia di morti) ordinato senza troppi scrupoli dal re Hussein per salvare il trono. I due episodi non sono eccezioni alla regola. Negli anni 70 Arafat non riuscì a tradurre il sostegno internazionale ottenuto con il terrorismo per i suoi eccessi. Negli anni 80 non riuscì a tradurre la
svolta diplomatica dell’Olp in concreti successi politici scivolando di nuovo nel terrore. La vittima di quell’errore fu il neonato dialogo con gli Stati Uniti. Poi venne la scelta fatale di allinearsi con Saddam Hussein nel ’90. Il resto è storia. Arafat, con le sue abilità di grande comunicatore, con la sua comprovata facilità a sedurre i suoi insconfesterlocutori, con tutto il bagaglio di esperienza politica accumulata in quarant’anni di battaglie e diplomazia, rimane incapace di pianificazione strategica. Grande improvvisatore
nel gioco della sopravvivenza politica in un Medio Oriente mai amico della longevità dei suoi leader, Arafat è sopravvissuto ai suoi errori creando delle crisi che soltanto lui poteva poi risolvere. Nel gioco d’azzardo che ha sempre perseguito, dalla Giordania al Libano, dal terrorismo al suo allineamento con Saddam, Arafat ha sempre fatto scelte sbagliate. L’Intifada non fa eccezione. Convinto di ottenere maggiori concessioni da Israele, preoccupato del crescente malcontento contro l’Anp nei territori, ha scelto tre anni fa di creare una crisi dove il suo ruolo potesse nuovamente uscire rafforzato. E ha sbagliato. Non sarebbe ora che l’uomo più responsabile d’ogni altro del mancato appuntamento dei palestinesi con la storia, la smettesse di farla, la storia, e ne divenisse parte?
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