Un articolo onesto e coraggioso come chi l'ha scritto
Testata: La Stampa Data: 20 settembre 2003 Pagina: 9 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Io, ebreo, accusato di uccidere arabi»
LE GANG DI TERRORISTI CHE TENDONO AGGUATI ALLA MANIERA DI HAMAS
Questo è l'occhiello che gli esteri della Stampa hanno messo sopra al titolo del pezzo di Fiamma Nirenstein. Sbagliato e fuorviante, per un articolo di giornalismo investigativo come purtroppo è raro leggere sui nostri quotidiani. Sela Tor, l'intervistato, sempre che sia colpevole, non ha mai fatto saltare autobus palestinesi, non ha laciato bombe in discoteche paletinesi, non ha fatto saltare caffè palestinesi. E'l'angolo oscuro d'Israele, una parte infinitesimamente piccola anche se pericolosa. E come tale viene giudicata e repressa. In altre parti del mondo, magari neanche tanto lontane da Israele, Sela Tor è la regola. In Isarele no. Qui sta la differenza. IL giovane uomo scende da un'auto che potrebbe servire giusto da pollaio per le galline, e si avvia verso l'appuntamento cui la cronista ha dato la caccia per più di un mese. Dinoccolato, alto, con lo zucchetto rituale a strisce di tutti i colori, i jeans distrutti dal tempo, uno scialle di preghiera che sembra l'arcobaleno, i riccioli biondo scuro da cantante rock degli Anni 70, cammina piano verso di noi nel parcheggio. E’ nervoso, fuma, non ha mai parlato in vita sua con un giornalista. E d'un tratto sono urla e maledizioni: un giardiniere arabo lo ha avvistato, lo ha riconosciuto dalle foto sui giornali e lo rincorre gridando: «Assassino, terrorista». Il giovane uomo lo guarda senza espressione seguitando a muovere lentamente nella nostra direzione. Ci saluta, il giardiniere si allontana ma continua: «Assassino, terrorista». «Sono Sela Tor» si presenta il giovane. Potrebbe aggiungere: uscito da pochi giorni dalle celle dello Shin Bet, i servizi di sicurezza israeliani, sezione ebrei, dopo 27 giorni di detenzione preventiva in cui non sono riusciti a provare nessuna delle accuse, anche se l'istruttoria per omicidio è ancora aperta. Accusato di: uso criminale di armi, tentativo di omicidio, sette omicidi, preparazione di esplosivi, esplosivi. «Ma non hanno provato nulla, e io sono innocente. Dopo 22 giorni che ero là, mi hanno fatto la macchina delle verità, e sono uscito pulito, e anche quasi tutti gli altri. Non ho mai detto una parola, se non per pregare». Tre dei tredici arrestati dall'aprile scorso sono ancora in galera, ieri la polizia ha trovato vicino a un avamposto una grotta piena di armi pesanti, compresi missili antitank; i tredici erano, o sono, tutti amici di Sela, tutti sospettati di essere parte di una nuova gang di terroristi ebrei, implicata, dall'aprile del 2001, nell'assassinio di nove arabi e nel ferimento di decine. E’ una banda di giovani, gente marginale, sostanzialmente incolta, che non ha ruolo né mestiere dentro il movimento dei settler, ragazzi che vengono da famiglie povere ed estremiste e si sposano bambini. Le azioni di queste bande di ricercati sono soprattutto agguati notturni col fucile, alla maniera delle Brigate di Al Aqsa o di Hamas: nella notte, uno sparo contro un'auto di passaggio, un morto, due morti, chi piglio piglio. Sela Tor non solo non ha mai confessato ma nega recisamente tutto: «E’ vero che ho un'istruttoria aperta, ma dalle nostre parti, a Hebron, insieme al regalo del Bar Mitzva, a tredici anni, ricevi con tanti auguri un conto aperto con la polizia». La storia per Sela, che ha 22 anni, comincia il 14 agosto, a mezzanotte, nelle due stanze di Hebron - zona centrale di Avraham Avinu, dove vivono le 50 famiglie ebree - dove sta dormendo con sua moglie (25 anni) e tre bambine dagli zero ai tre anni. Ma come, già tre figli a 22 anni? «Certo, e non ne è niente, avrò ancora tanti bambini, con l'aiuto di Dio». Sfasciano la porta, è lo Shin Bet. «Al primo colpo mi precipitai dabbasso, non volevo che le bimbe vedessero. A mala pena mi sono infilato i pantaloni, la kippà e il talit (lo zucchetto e il manto di preghiera, ndr). Era giovedì, mi hanno portato con le mani legate dietro la schiena e senza camicia alla centrale di polizia di Gerusalemme, mi hanno messo a sedere su una sedia e hanno cominciato a interrogarmi. Mi hanno lasciato dormire qualche ora soltanto sabato. Quando mi hanno preso a casa, fuori di poliziotti ad aspettarmi ne avrò contati cento. Poi in prigione si davano continuamente il cambio a gruppi per interrogarmi e maltrattarmi. Ho visto il mio avvocato solo dopo 22 giorni. Durante gli interrogatori ero legato, e quando non mi interrogavano dicevano stupidaggini a voce alta nel mio orecchio. Dopo qualche ora mi portavano in cella, e poi indietro: la cella era un bugigattolo nero con il bugliolo e il materasso. La porta era a prova di rumori e aveva uno spioncino da cui venivo controllato spesso, la finestra chiusa, la luce elettrica debole e sempre accesa. I muri, neri. Fra gli uomini dello Shabbach c'erano quelli incaricati di dirmi "maledetto assassino" e quelli che mi dicevano "Ti vogliamo aiutare". Uno mi ha detto: se fai il bravo, ti diamo vacanza per il matrimonio di tua figlia (che ha 3 anni, ndr) perché hai già sette condanne per omicidio, tante quanti gli arabi che hai ammazzato». Sela qui fa un suo primo commento molto conturbante: «Io di arabi non ne ho ammazzati, ma se qualcuno li ammazza, io non piangerò certo. Ma non so niente, non ho parlato con nessuno, e soprattutto non ho parlato di nessuno, mentre qualcuno ha parlato di me, e ha detto un sacco di stupidaggini». Chi ha parlato di Sela Tor è Shahar Dvir Zeliger, pastore, sospettato di omicidio plurimo, ora in carcere. L'allarme della polizia israeliana comincia poco dopo il 3 aprile 2002, quando a Hebron viene uccisa una neonata, Shalhevet Paz, presa di mira in testa da un cecchino palestinese mentre gioca al giardinetto. Pochi giorni dopo, in tre diversi attacchi, cinque palestinesi vengono feriti fra Hebron e Gerusalemme: nel corso degli ultimi due anni ci sono stati sette uccisi e svariati arresti fra gli ebrei. Sono storie di famiglia, di amici intimi fatti fuori generalmente sulla strada o con le bombe. Anche Sela ha avuto il suo migliore amico ucciso, e suo padre Ilan, un insegnante fondatore del sobborgo moderno di Hebron, alcuni anni fa fu accusato di avere ucciso una donna araba che, durante una manifestazione, gli aveva minacciosamente bloccato l'auto. Ma le testimonianze non concordavano, e Ilan fu scagionato. Il 29 aprile di quest'anno la vicenda del terrorismo ebraico si impenna con il ritrovamento di 4 chili di esplosivo nei pressi della scuola femminile araba di Atur, una periferia di Gerusalemme. Qui c'è la prima ondata di arresti, che comprende anche il fratello di Shahar Dvir Zeliger, Shlomo. Ad agosto viene arrestato il padre di Shalhevet Paz, la neonata uccisa dal cecchino e da qui si diparte la ragnatela in cui è rimasto preso Sela. Quando racconta, Sela fuma e fuma, e non mente; probabilmente omette e nega, ma non ha paura di dire cose che in Israele lo rendono inviso anche alla stessa gente fra cui è cresciuto, come testimoniano le miriadi di uscite di settler che nei giorni dell’inchiesta hanno parlato per condannare il terrorismo. Pinkas Wallerstein, un duro che non cederebbe un centimetro della Cisgiordania, ha fatto personalmente un appello alla gente degli insediamenti perché parli, racconti, se sa: «E’ per noi e per tutto il popolo ebraico una vergogna e un danno che esistano gruppi clandestini che uccidono, odiano, distruggono la nobile causa del popolo ebraico». Con lui, la quasi totalità dei rabbini della West Bank, che citando l'alachà, la legge ebraica, condannano qualsiasi uccisione quando non ci sia pericolo di vita. Sela è convinto che nessun arabo è innocente: «Non è una questione individuale, o personale, anche se potrebbe esserlo perché comunque vengono educati nell'odio di tutti gli ebrei, e ciascuno di loro è di fatto pronto a attaccarci, a ucciderci uno a uno. E’ una questione legata alla Terra e alla fede: la Terra è nostra e, checché si parli di due Stati per due popoli, non possiamo in nessun caso suddividerla. Non perché Sela o chiunque altro abbia deciso così: il Rambam (uno dei fondamentali studiosi nella dottrina ebraica, ndr) scrive nei suoi testi che è consentito, anzi, è doveroso combattere e, se necessario, uccidere senza lasciare vivo nessuno in caso ci si avvii a una guerra per la Terra». Ma non c'è già l'esercito che combatte agli ordini del Governo democratico? Non va bene, non basta? Sela Tor ride di cuore. Combattere, per Sela, non ha nulla a che fare con l'esercito israeliano, o con la difesa dal terrorismo: anzi, lui, nell'esercito, non ce lo hanno voluto. «Alla visita di leva, uno psicologo mi ha fatto le solite domande cretine, mi ha chiesto se ho degli hobby, che cosa faccio quando sono solo. Ho risposto: parlo con Dio. Volevo dire: prego. Ma lui mi chiede: "E Dio ti risponde?". Allora io, scocciato, gli dico: «Tutto il mondo è la sua risposta». Lui ancora insiste: "Senti le voci?". E io: "Ancora no, ma spero di arrivarci con l'aiuto di Dio". Allora mi hanno dichiarato matto, e mi hanno mandato a casa». Magari, gli suggerisco, avranno avuto qualche informazione riservata: per esempio, che i suoi genitori, fondatori di Kiriat Arba, sono implicati in avventure di estremismo. E che suo fratello Yeoshafat è il settler simbolo della «gioventù delle colline», quel gruppo di pastori guerrieri che fondano gli avamposti sulle montagna e poi aspettano che l'esercito venga a buttarli fuori per ingaggiare una bella battaglia con lo Stato d'Israele traditore. Sela aveva seguito il fratello sul monte, nell'avamposto di Havat Maor, un luogo meraviglioso, pieno di fiori gialli e di sangue: «Là fu ucciso Dov Dribben, un nostro eroe nel 1999; ma lo Stato d'Israele non tiene contro dei nostri morti. Sono stato sgomberato dalla mia stessa casa, dalla mia terra, e da chi? Da quel governo che ha pensato bene di armare i palestinesi contro i suoi stessi cittadini. E io dovrei riconoscermi in questo Stato?». Sela non rifiuta il sionismo: soltanto, gli sembra che non abbia nulla a che fare con la democrazia, con l'oggi: «Sinceramente la democrazia mi interessa poco: un giorno Israele, com’è scritto nella Torah, avrà un re che sarà l'autentico custode della sua integrità. Oggi c’è un governo che non ha a cuore la sorte degli ebrei e dell'ebraismo, ha riempito il Paese di non ebrei e lo ha anche degiudaizzato. Per me, Tel Aviv non esiste, non la considero, dire male di chi vive là mi farebbe compiere un puro e semplice peccato di maldicenza. Preferisco non parlare di loro». Di che cosa parla Sela con gli amici del microcosmo della sua vita a Hebron, fra una visita alla grotta di Machpelà, la tomba dei patriarchi, e una passeggiata al venerdì sera per andare a trovare la famiglia e gli amici a Kiriat Arba? «Di cose belle, Bibbia, natura. Di politica non parlo, non leggo i giornali, la radio non mi interessa». Sela Tor, accusato di omicidio plurimo anche se ora è in parte scagionato, è quello che, negli Anni 70, si sarebbe chiamato un freak: ha studiato ecologia, ama la natura e le camminate sopra ogni altra cosa, fa il falegname e prende un'aria da santo anche quando dice: «E’ Lui che vuole che gli arabi spariscano del tutto dalla nostra terra, Lui che decide, non io». Il fenomeno di cui fa parte è pieno di pericoli perché si tratta di gruppi chiusi e silenziosi, esterni a ogni movimento anche di settler, a ogni politica. Tor sorride volentieri, parla della sua bambina più grande con infinita tenerezza, poi dice che «i bambini e le donne arabe per lui non sono innocenti, sono arabi» e che comunque dell'esercito non ci si può fidare, della polizia nemmeno, e neppure, per carità, del Moetzet Yesha, il consiglio che rappresenta gli insediamenti. «Dello Stato d'Israele, insomma, non ci si può fidare, perché non ha capito una cosa fondamentale: siamo in una guerra totale, in cui devi agire e basta, senza stupide chiacchiere politiche. Non so niente di organizzazioni o piani, ma chi se ne occupa fa una buona azione. Gli arabi non sono colpevoli, soltanto, non devono esserci. E quando la legge è piena di debolezze, quando la politica perde la testa, quando i rabbini non sanno più dire la verità, allora bisogna agire. Anche se io personalmente penso che queste azioni sporadiche non servono». Come, non servono? «Non servono, ma io non le condanno». E lei sente di essere su una strada buona, una strada vincente? «Quando sarò segretario di Dio, te lo dico».
Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita. Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.