Testata: La Stampa Data: 13 marzo 2002 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «DUE CITTA’ BERSAGLIATE E INSANGUINATE DAI KAMIKAZE INTEGRALISTI»
Gerusalemme come New York: il coraggio di fronte al terrore Si convive con il pericolo senza concedere nulla alla rabbia, si accettano rigidi controlli e limitazioni alla libertà, si esce come se tutto fosse normale
13 marzo 2002
Maurizio Molinari inviato a GERUSALEMME
IL corridoio dell’ottavo piano dell’ospedale Shaarei Zedek è lungo una trentina di metri, sarebbe del tutto spoglio se non fosse per pochi sedili di plastica arancione attaccati al muro proprio di fronte alle porte scorrevoli della Terapia intensiva. Su questi sedili si alternano da mesi parenti e amici di feriti ridotti in fin di vita dagli attentati terroristici palestinesi avvenuti a Gerusalemme contro caffè, ristoranti, mercati di quartiere e pizzerie. Efrat, neanche 25 anni, sabato sera si trovava a pochi metri di distanza dal kamikaze che si è fatto saltare in aria nel caffè «Moment» di Rehov Aza, affollato da duecento giovani.
E’ arrivata al pronto soccorso di Shaarei Zedek poco dopo un suo amico e coetaneo cui l’esplosione aveva troncato braccia e gambe. Lui è morto subito - assieme ad altri dieci -, a lei è andata meglio: le hanno trovato «solo» una gamba maciullata dalle schegge e un bullone in mezzo alla testa. Classificandola «grave», la dottoressa Weitzman - immigrata dalla Russia dieci anni fa - l’ha esaminata e, dopo le prime cure, ha deciso di trasferirla all’ottavo piano perché il bullone rischiava di ucciderla. Gli infermieri hanno avuto un attimo di esitazione a muovere il lettino sul quale si trovava. Era una pozza di sangue, rischiava di lasciare una scia rossa ovunque fosse passato. Le hanno cambiato il lettino, abbandonando per la fretta quello intriso di sangue di fronte agli ascensori.
All’ottavo piano Efrat è arrivata a occhi spalancati, fissi nel vuoto, cosciente, seguita pochi minuti dopo da quattro amiche del cuore: erano assieme a lei da «Moment», le schegge le hanno risparmiate ma ora sono lì fuori ad attendere sue notizie. Hanno gli occhi umidi e ingannano i medici dicendo di essere delle «cugine» per farsi aggiornare sulle sue condizioni. La Terapia intensiva è l’anticamera della sala operatoria per i casi disperati, le sfide al destino. Negli ultimi mesi a passarci sono stati i feriti senza speranza causati dai kamikaze nella pizzeria «Sbarro», dalla donna suicida di Rehov Jafo, dalle autobombe nel centro. Adesso è il turno di Efrat, occhi neri, carnagione scura, capelli ricci. Il bullone in testa impegna i medici in un duello con l’impossibile, è l’unico argomento di discussione fra le amiche nel corridoio.
Si scambiano l’un l’altra ricordi recenti di «casi simili a Natanya e Tel Aviv», non ci sono né grida né disperazione, il dolore è solo nel tremolio delle voci poco più che ventenni. I giovani di Israele hanno imparato l’arte terribile della convivenza con i kamikaze, sanno che non c’è tempo né spazio per potersi permettere la disperazione, la resistenza al terrorismo passa all’interno di ogni ragazzo, di ogni famiglia, di ogni casa; consiste nel non farsi saltare i nervi, nel guardare avanti, nel continuare a vivere, nel discutere delle dimensioni di un bullone senza mai pronunciare la parola «morte». Nel corridoio dello Shaarei Zedek è palpabile la stessa capacità di resistenza al terrorismo che hanno dimostrato i newyorkesi dopo i tremila morti delle Torri Gemelle, abbattute l’11 settembre dagli aerei di Osama bin Laden.
Bersagliate dai kamikaze fondamentalisti, Gerusalemme e New York reagiscono in maniera simile: si convive con la paura senza concedere nulla alla rabbia, si accettano rigidi controlli di sicurezza e limitazioni della libertà personale, la vita quotidiana è la prova della propria sopravvivenza, la risposta al terrorismo è prendere l’autobus, bere un caffè, fare le compere in un centro commerciale o prendere l’aereo ringraziando con un cenno della mano il personale della sicurezza. Anche i segni esteriori delle due città si assomogliano: bandiere alle finestre e scritte patriottiche. Quando all’ottavo piano dell’ospedale Shaarei Zedek arriva la mamma di Efrat, una donna sui 45 anni, si guarda attorno e rivolgendosi alle coetanee della figlia chiede solo del tipo di schegge, non tenta di varcare la soglia della porta scorrevole, si mette seduta con premura su una delle sedie arancioni, aspetta.
Il medico arriva dopo una decina di minuti. «In quale parte del cervello si è conficcata la scheggia?» chiede la mamma. «E’ un bullone, ma il problema non è più questo - risponde il dottore, un israeliano longilineo neanche quarantenne, con forte accento americano - ma una nuova scheggia: è molto piccola, in mezzo al petto, molto vicina al cuore, bisogna intervenire». La mamma, impietrita, riesce solo a passarsi una mano sulla guancia sinistra, guarda le amiche, chiede di poter entrare, vedere Efrat prima dell’operazione, due piani più su. Dal momento in cui Efrat stava mangiando un sushi dal «Moment» non sono passate neanche tre ore. L’operazione riesce, ma solo la scheggia vicino al cuore è sconfitta.
L’odissea di Efrat, da domenica, continua ancora oggi in un altro ospedale - Hadassa di Ein Keren, quello con le vetrate di Chagall - dove la sfida contro il bullone nel cervello è affidata al miglior team di neurochirurghi di Israele. Ironia della sorte vuole che sia la stessa équipe che neanche due mesi fa ha salvato la vita a un kamikaze palestinese. Giunto con il corpo devastato dall’esplosione che l’avrebbe dovuto accompagnare all’incontro con novanta vergini in Paradiso, il kamikaze ha avuto bisogno di undici sacche di sangue israeliano per restare nel mondo dei vivi. Ai medici non è bastato e, tanto che c’erano, gli hanno anche rimesso in sesto una mascella «difettosa».
Il salvataggio è avvenuto solo da un pugno di settimane ma è già diventato una leggenda nei corridoi dello Hadassa. Per gli infermieri arabo-israeliani e palestinesi di Gerusalemme Est significa poter tornare a casa vantandosi del proprio posto di lavoro, per i medici israeliani è la dimostrazione che il giuramento di Ippocrate è più forte di qualsiasi incubo terroristico. L’unico a protestare è stato un dottore arabo cui non è andato giù il fatto che durante tutto il periodo di degenza il kamikaze sia rimasto sempre con un polso ammanettato al letto.
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