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Panorama Rassegna Stampa
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Testata: Panorama
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Pagina: 1
Autore: Enzo Bettiza
Titolo: «Arafat vittima di se stesso»
Costretto a Ramallah dagli israeliani, sempre meno appoggiato dagli europei, il vecchio leader palestinese sembra non avere più carte. Perfino fra i paesi arabi c'è chi pensa al dopo.

I pellegrini musulmani, per esorcizzare il diavolo, usano sigillare la fine del loro viaggio alla Mecca gettando sette pietre nel deserto, allusione simbolica ai coranici «sette pilastri della saggezza». Di Yasser Arafat si suole dire che egli ne buttava via cinque e ne teneva sempre due di scorta: potevano, non si sa mai, essergli utili più tardi, per ingannare ancor meglio il demonio. Le aveva già adoperate, quelle miracolose pietre di riserva, in diverse occasioni estreme: per evitare le sciabolate della Legione araba durante il Settembre nero del 1970 in Giordania, per sfuggire al duplice assedio dei siriani e degli israeliani nel 1982 in Libano, per sottrarsi alle infinite imboscate ordite contro di lui dal Mossad e dai servizi segreti di Damasco.
Ma, stavolta, quale pietra salvifica riuscirà Arafat a tirare all'ultimo momento fuori dalla tasca? Quale via di scampo riuscirà mai a imboccare per emergere vivo e sano, e magari a metà vittorioso, dalla morsa fatale in cui lo stanno stringendo i carri armati israeliani addossati a pochi metri di distanza dal bunker di Ramallah?
La situazione, nella quale il troppo callido Arafat si è in gran parte cacciato con le sue stesse mani, ha qualcosa di surreale. Egli è ormai una sottospecie di capo di uno stato immaginario assediato dal nemico. Un nemico che scorrazza su e giù per i suoi territori, che gli spara a vista con l'intento di umiliarlo senza ucciderlo, che lo stritola lentamente distruggendogli aeroporti e stazioni televisive, che gli decima a colpi di missili i contingenti di polizia, che gli consente di muoversi «liberamente» nella «capitale» impedendogli però di varcarne i confini, di visitare altre località vicine, tanto meno di recarsi all'estero per stringere la mano di compiacenti uomini di governo europei. Non s'era mai vista una tragicommedia del genere. Formalmente Arafat, presidente di una fantomatica Autorità palestinese, dispone ancora di un «esecutivo», di un «parlamento», di una «gendarmeria», di una «amministrazione pubblica». Formalmente può indire «sedute di gabinetto», lanciare proclami al «paese», far arrestare, lui recluso, la gente sospetta di terrorismo che gli israeliani gli impongono di arrestare. Gli scugnizzi palestinesi possono inscenare impunemente sassaiole simboliche contro i cingolati del nemico, che puntano i loro obici soprattutto sui covi di guerriglieri adulti e armati. Lo stato di guerra e d'occupazione c'è e non c'è, Arafat esiste e non esiste, non si capisce bene se i cosiddetti Territori siano ancora arabi o di nuovo ebraici. Può addirittura accadere che il presidente del «parlamento» di Ramallah venga sfiorato da un proiettile e che, un'ora dopo, il ministro degli Esteri di Gerusalemme gli telefoni chiedendo scusa e comprensione.

L'isolamento imposto da Ariel Sharon ad Arafat sembra produrre effetti devastanti sulla sua credibilità nel mondo occidentale e perfino arabo. Il presidente George W. Bush, che dopo l'attentato dell'11 settembre aveva promesso ai palestinesi uno stato vero, si è poi visto costretto ad allentare la pressione americana sugli israeliani e a rompere ogni rapporto con Arafat, sospettato di complicità con i terroristi di Hamas e gli estremisti di Al Fatah. L'ex presidente Bill Clinton, che ad Arafat aveva proposto e garantito una onorevole soluzione di compromesso con gli israeliani, non gli ha nemmeno telefonato durante una recente visita in Medio Oriente. La spinta pacifista e negoziale degli europei, sempre inclini all'indulgenza diplomatica nei confronti di Arafat, si è rallentata al cospetto del dubbio sulla sua reale capacità o volontà di stroncare l'escalation del terrorismo kamikaze contro Israele. L'Arabia Saudita, fino a ieri grande protettrice finanziaria di Al Fatah, sta mostrando segni di fastidio e si prepara a promuovere una ripresa della trattativa arabo-israeliana che presuppone, a ragion veduta, lo scavalcamento di Arafat. Il losco affare della Karine A, la nave carica d'armi ed esplosivi inviata dagli iraniani ai palestinesi e bloccata dagli israeliani, ha imbarazzato altri paesi arabi moderati; ad Amman e a Rabat sono state drasticamente proibite manifestazioni pubbliche a favore di colui che, oggi, è prigioniero soprattutto dei propri calcoli sbagliati e dissennati.
Non voglio dire con questo che la linea dura di Sharon e dei fondamentalisti israeliani sia esente da ombre ed errori. Ma a provocarli e giustificarli è stato in parte lo stesso recluso di Ramallah. Sono tanti ormai, a cominciare dagli stessi arabi, coloro che non vedono l'ora di sostituirlo con un successore degno di fiducia e di trattativa.


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rossella@mondadori.it

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