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La Stampa Rassegna Stampa
00.06.2002 Fiamma Nirenstein
Plauso alla Stampa

Testata: La Stampa
Data: 00 giugno 2002
Pagina: 1
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «NELLE VIE D'ISRAELE PER RISPONDERE SECONDO LE NORME RELIGIOSE ALLO SCEMPIO DEI KAMIKAZE GLI ANGELI DEI CORPI PERDUTI»
GERUSALEMME IL peggio viene la notte, prima di riuscire ad addormentarsi: una sigaretta, un caffè, uno sguardo alle luci di Gerusalemme dalla terrazza di casa. Nelle camere la moglie Friedel e i nove bambini respirano piano, si lamentano un poco nel sonno, e Bentzi Oiring, corpulento, con la barba e i riccioli laterali, i pantaloni neri alla zuava e la camicia bianca da cui fuoriescono gli tzitzit (le piccole nappe) del piccolo manto di preghiera non riesce neppure a sedersi: quando è giunta all'obitorio la madre di quel ragazzino irriconoscibile per le ferite, si domanda, le ho detto le parole giuste? Ne avevo sistemato il volto in modo che lo potesse almeno guardare un'ultima volta? Quando alla pizzeria Sbarro ho rimosso il corpo del bambino dalla carrozzina, l'ho fatto con sufficiente amore e delicatezza? Nel fumo, nel fuoco, fra i corpi smembrati, mentre mettevo insieme i brandelli di quella donna, ho evitato di farmi prendere dal disgusto, ho pensato che l'uomo è fatto a immagine di Dio? Poco lontano un altro uomo ha pensieri analoghi, stavolta però sui vivi feriti, e anche lui non dorme mai, o talvolta, quando cade esausto, lo svegliano i sogni. E' astigiano di origine e porta un gran cognome: Artom. Elia, 52 anni, è infatti nipote del commentatore della Bibbia e rabbino Elia Samuele Artom. Il caffè di notte lui se lo fa con la macchinetta espresso, e pensa: «Quando io e i miei volontari del Magen David Adom, la Stella di David Rossa, siamo arrivati sul luogo dell'attentato, in quell'inferno di urla e di sangue, ho suddiviso bene i volontari? Ho evacuato per primi i feriti più gravi? Ho salvato più vite possibile? Quello che gridava in un angolo, e quello che invece non rispondeva... Siamo stati abbastanza veloci nel portare via quella ragazza ferita al torace, nel suturare la ferita di quel ragazzo cui era saltata via una gamba? Avremmo potuto salvarne uno di più, avrei potuto bloccare quell'attacco cardiaco letale? Avrei potuto essere più svelto?». Li vedete sempre alla televisione, perché sono i protagonisti buoni dell'era del terrore: poco dopo che è scoppiata una bomba, arrivano su ambulanze urlanti due gruppi: uno porta una giacca bianca col simbolo della stella rossa, e sono i volontari di Elia; l'altro gruppo indossa la giacca bianca finchè ce n'è bisogno, poi si trasforma negli uomini con la gabbana gialla di Zaka, che nelle iniziali significa «identificazione delle vittime dei disastri», detto anche Hessed ha emet, Misericordia della verità. Raccolgono e compongono le spoglie dei morti, anche nel loro più piccolo frammento. Prima arrivano con le ambulanze bianche gli uomini di Elia («col giubbotto antiproiettile, perché entriamo prima della polizia, e tutto può ancora scoppiare») che suddivide la zona dell'attentato con numeri e assegna a ogni equipaggio di ambulanza un tratto di marciapiede, o di macerie, o di caos. Tutti i feriti chiamano «ma quelli gravi vanno cercati, perché non hanno la forza di chiamare». La polizia grida di abbandonare il luogo. I volontari finiscono prima possibile di sgomberare i feriti, e lo fanno in genere a tempo di record; poi tutti vengono allontanati per verificare il terreno. Subito dopo Bentzi dà il via al suo lavoro: niente, proprio niente, deve restare insepolto, ogni uomo deve tornare al Cielo più intero possibile, ognuno è sacro fino in fondo alla strada. A ogni costo. Magen David Adom: Elia è il capo istruttore sia dei giovani volontari che dei veterani. In Israele ci sono 6500 volontari dai 15 anni in su, 800 a Gerusalemme. I ragazzi delle scuole fanno a gara. I lavoratori fissi sono, fra paramedici guidatori di ambulanze e medici, 1500 di cui 150 a Gerusalemme. Nel 2001 le chiamate sono state 409 mila, in confronto alle 344 mila del 1998. Le ambulanze sono di tre tipi, a secondo della gravità dei disastri. Ultimamente vengono messe tutte in campo: dentro una di queste, mentre è in atto una chiamata, Elia ci mostra il defribillatore, le macchine con la ventosa per la ventilazione (anche una piccolissima, per neonati), le bombole a ossigeno, i vari strumenti per suturare, eccetera. Dalia, che sta correndo verso una chiamata con tre volontarie diciannovenni molto calme, è una guidatrice di ambulanza: questo in Israele significa essere responsabile e capo della squadra a tutti gli effetti. Dalia ha anche un figlio, Elisha, di 18 anni, che è volontario: «Lo ritengo abbastanza grande per aiutare in qualunque circostanza. E del resto lui vuole assolutamente aiutare: a Ben Yehuda, dopo un attentato, ha trovato un suo compagno di scuola ferito, capisce? Però cerchiamo di evitare situazioni estreme ai volontari fra i 15 e i 18 anni». Elia, occhi azzurri e stanchi, parole brevi, viso aperto, ha un ufficio minuscolo bombardato di telefonate. I suoi quattro figli lo seguono sulla sua strada: Yaacov, di 25 anni, paramedico, Rifka di 23 che guida un'ambulanza, Aviad, di 20, volontario, e anche la piccola di 13 anni non vede l'ora di arruolarsi. «Quando li incontro nel caos, come nelle stragi del Caffè Moment, o della pizzeria Sbarro, è una enorme consolazione». I volontari fanno corsi continui di aggiornamente: «Ne abbiamo addirittura troppi, al minimo devono fare un corso di 60 ore, sono preparati, ma nessuno può togliergli la terribile tensione del momento in cui l'ambulanza corre verso un inferno che non sai cosa sarà». Zaka: Yehuda Meshizahav ci riceve in una specie di grotta nel quartiere religioso di Mea Shearim: in ottimo ordine e nella miseria di un'associazione volontaria a cui non molti pensano, i sacchi di plastica, i guanti, i raschietti, le asce per aprirsi la strada: «Noi siamo 604, si cui 80 nella capitale. Le mogli telefonavano dicendo "mio marito dà di matto": abbiamo deciso di farci aiutare da uno psicologo che in sedute collettive ci aiuta a esprimere, a raccontare il nostro quotidiano rapporto con la morte. Pensi: noi guardiamo nelle tasche, nelle agende, nelle lettere, nei piccoli gioielli delle persone uccise per identificarle. E' difficile guardare quello che aveva in tasca un ragazzo di diciotto anni, o quello che c'era nella carrozzina di un bimbo: fino a un momento prima c'era tutta una vita da vivere. Molti di noi lavorano e piangono. E siamo noi a aiutare le famiglie a incontrare i corpi dei loro cari. Molti genitori svengono, moltissimi negano: impossibile, le garantisco che non è lei. E noi siamo sicuri che invece è proprio sua figlia. A volte strappiamo i bambini dal corpo inerte della loro mamma, o il neonato perito dalle braccia della madre. La mattina vediamo in foto, sorridenti, coloro che abbiamo raccolto in pezzi. E poi affrontiamo con le nostre mani, con il nostro corpo, indicibili orrori. Penso che, senza credere in Dio, non ce la farei». Anche gli uomini di Zaka fanno corsi per imparare bene la fisiologia del corpo umano. E che cos'è, alla fine? «Qualcosa di vago, tragico, non garantito, che ritorna vero solo quando la sera abbraccio i miei figli».




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