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Il Foglio Rassegna Stampa
18.09.2003 Arabia Saudita, Onu, Siria
Tre analisi dal Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 18 settembre 2003
Pagina: 1
Autore: tre giornalisti
Titolo: «Arabia Saudita, Onu, Siria»
Riportiamo l'articolo pubblicato in prima pagina intitolato "I compromessi sauditi" pubblicato su Il Foglio giovedì 18 settembre 2003.
L'Arabia Saudita, quasi sempre assente dai grandi organi di informazione,è invece presente nelle puntuali analisi pubblicate dal Foglio.

Riad. Per Riad è soltanto carta straccia. Per gli israeliani è la prova documentale dei finanziamenti sauditi a Hamas. Per il segretario del Tesoro americano John Snow, da ieri in Arabia Saudita, un altro tassello per mettere con le spalle al muro il principe reggente Abdullah. Un tassello su cui far leva per bloccare i cinque milioni di dollari sauditi che rappresentano la metà delle donazioni annue su cui si reggono le finanze di Hamas. Il documento, di cui riferiva ieri il New York Times, è stato trovato a dicembre
in una sede dell’organizzazione fondamentalista nella Striscia di Gaza. Si tratta, secondo la traduzione dell’esercito israeliano, del resoconto di una riunione di un’organizzazione umanitaria tenutasi a Riad nell’ottobre 2002 durante la quale il principe Abdullah ha ripetutamente incontrato Khaleed Meshaal, capo dell’ufficio politico di Hamas a Damasco. Inserito dalla segreteria del Tesoro statunitense nelle liste dei finanziatori del terrorismo e sfuggito qualche anno fa a un tentativo di avvelenamento del Mossad, Meshaal è considerato uno dei personaggi di punta dell’organizzazione fondamentalista in esilio. Nel resoconto Hamas elogia "l’atteggiamento coraggioso" dei sauditi e li ringrazia per aver continuato "a mandare aiuto nonostante le pressioni americane". Ringraziamenti imbarazzanti che, secondo israeliani e statunitensi, proverebbero come almeno cinque dei dieci milioni di dollari di donazioni ricevute annualmente da Hamas provengano da donatori sauditi. I ringraziamenti da soli in verità provano poco perché gran parte delle regalie arrivano in contanti rendendo assai difficile l’identificazione dei donatori
e dell’eventuale origine governativa dei fondi. La parte più imbarazzante del documento è, però, il resoconto degli incontri tra Meshaal e Abdullah. Incontri avvenuti a Riad nel corso dell’incontro dell’Assemblea mondiale della Gioventù musulmana, un’organizzazione umanitaria saudita la cui consociata in Virginia venne aperta nel ’92 da Abdullah bin Laden, cugino di Osama. A rendere più sospetta l’attività dell’organizzazione – mai finita sotto inchiesta negli Usa, ma accusata da India e Filippine di finanziare il terrorismo – sono le sue finalità educative sintetizzate nella necessità di
"fornire ai giovani musulmani la consapevolezza della supremazia dell’Islam rispetto agli altri sistemi". Attività elogiate pubblicamente dallo sceicco Ahmed Yassin, padre spirituale di Hamas. Ma l’elemento più inquietante arriva dalla Spagna. Qui durante una perquisizione della residenza di Mohammad Zouaydi, finanziatore della cellula di Amburgo legata a Mohammed Atta capo commando dell’11 settembre, fu trovato un fax spedito il 24 ottobre 2001 dall’ufficio di Hebron della Gioventù musulmana in cui si sollecitavano donazioni. Un documento che per gli inquirenti spagnoli proverebbe come Zouaydi finanziasse sia Hamas sia al Qaida. Tutti elementi a cui non deve aver tralasciato di accennare Snow.

I soci di al Qaida
Dopo aver bloccato i fondi provenienti dagli Stati Uniti e aver convinto l’Ue a iscrivere anche l’ala politica di Hamas nelle liste del terrorismo, l’Amministrazione Bush sta tentando di prosciugare le sorgenti mediorientali
dei denari integralisti. I cinque milioni di dollari a Hamas sono solo un rivolo delle centinaia di milioni sauditi che ogni anno gonfiano le casse di altre associazioni estremiste, alcune delle quali molto vicine ad al Qaida. Ma ora l’obiettivo di Washington, anche per favorire il riavvio della road map, è il blocco dei finanziamenti a Hamas. "Il terrorismo deve essere fermato perché è il nocciolo del problema mediorientale. Hamas è chiaramente collegato con il terrorismo e quindi dovete occuparvene", ha detto Snow ai rappresentanti
politici ed economici palestinesi durante la tappa israeliana del suo viaggio. Parole che, carte alla mano, ha ripetuto ieri agli imbarazzati rappresentanti del regno saudita. E forse dovrà convincere anche Amman, visto che la Banca centrale giordana che lunedì scorso aveva bloccato una serie di fondi di Hamas già martedì li ha di nuovo liberati.
L'ONU è in crisi. Si parla di una sua riforma. Così com'è è un baraccone che non funziona più. Ecco alcune buone idee che arrivano dai radicali. L'articolo è in terza pagina del Foglio.
New York. Parlare di democrazia nel paese della Democrazia sembra un’enfasi
gratuita. Ma non lo è. Soprattutto quando la parola democrazia non resta nell’aria come un angelo custode, ma si concretizza in proposte innovative e con una dimensione ben specifica. Ecco perché Daniele Capezzone, segretario di Radicali italiani, è sbarcato in questi giorni negli Stati Uniti per presentare il suo libro, "Uno shock radicale per il XXI secolo", e incontrare
think-tank, direttori di giornali, membri del dipartimento di Stato, in un viaggio tra New York e Washington. L’agenda è fitta, la rete di contatti smobilitata è ad ampio raggio. Uno degli incontri più significativi è quello all’American Enterprise Institute, patria dei neocon e uno dei più rispettati think-tank americani, dove rincontrerà lo storico Michael Ledeen, che era venuto in Italia a presentare il suo libro all’inizio dell’estate. Anche in questa occasione la parola d’ordine sarà "democrazia". La proposta radicale di un’Organizzazione mondiale delle democrazie ha lo scopo di riportare tutti i soggetti politici oggi in campo alle proprie origini, che ruotano appunto intorno al concetto di democrazia e di libertà. "Come la WTO (Organizzazione
del commercio mondiale, ndr) regola gli scambi – dice Capezzone – così la
WDO (Organizzazione mondiale della democrazia, ndr) dovrebbe stabilire standard
e regole minime di democrazia per poter avere diritti politici a livello internazionale. E’ necessario definire il concetto di democrazia e mettersi d’accordo su che cosa s’intende quando se ne parla". Il progetto s’inserisce in un più ampio ripensamento del ruolo dell’Onu: "La WDO sarebbe un organo
all’interno dell’Onu – continua Capezzone – con il compito specifico di rimettere il concetto di democrazia al centro del pensiero politico internazionale. Le Nazioni Unite sono nate e ancora oggi esistono per garantire e mantenere la democrazia: perché i paesi non democratici dovrebbero restare tali e si devono trovare giustificazioni accettabili allo status quo?". La democrazia diventerebbe un lasciapassare per avere voce a livello internazionale: "Nel progetto che propongo, la Libia non potrebbe essere mai a capo della commissione dei Diritti umani". Nella WDO non ci entra chiunque, ma soltanto chi ha dimostrato sensibilità e apertura verso concetti quali i diritti umani e le libertà individuali, perché "la mera esistenza di un paese non può di per sé garantire il diritto ad avere un’influenza internazionale". L’accoglienza americana è stata calda, non solo da parte di molte testate come Commentary, Weekly Standard e Washington Times, ma anche da parte dell’Amministrazione: ricondurre l’Onu alla propria legalità è un obiettivo che sta a cuore a tutti. Il merito di Capezzone sta nell’aver colto il momento giusto per proporre una redifinizione degli assetti tradizionali: lo status quo è il suo nemico. Non si può quindi non parlare di Europa. Nel suo libro
Capezzone propone un modello federalista europeo – gli Stati Uniti d’Europa –
e un ripensamento del suo ruolo politico, ancora più significativo dopo le divergenze che la stanno indebolendo negli ultimi mesi. Per Capezzone, "il declino dell’Europa è ormai evidente ed è ora che si reagisca in qualche modo: gli Stati Uniti non possono essere sempre il capro espiatorio della sua impotenza. L’immobilismo in cui è caduta, la maniacale tendenza a mantenere lo status quo non sono più soltanto estremamente noiosi, ma anche dannosi". E questa è musica per le orecchie americane.
Sempre in terza pagina: "Che tempismo questo Patten, ora vuole abbracciare la Siria". Stato canaglia ma non per tutti. Anzi, secondo l'UE è addirittura uno stato presentabile. Leggere per credere.
Milano. Sul Medio Oriente gli Stati Uniti e l’Unione europea sembrano avere progetti diversi, molto diversi. Funzionari, anche alti, e diplomatici europei sembrano non ascoltare gli avvertimenti che giungono dagli Stati Uniti, o quanto meno non collaborare con Washington. Il commissario alle Relazioni esterne dell’Ue, Chris Patten, ieri a Baghdad, ha appena terminato una visita in Siria. Obiettivo: accelerare le trattative (in cantiere dal ’97) che porteranno entro breve alla firma di un accordo di associazione tra Bruxelles e Damasco. Una manovra della nuova (o vecchia?) Europa allargata che s’inserisce nella politica dei rapporti di buon vicinato. Perché, quando un giorno non più lontano, la Turchia sarà uno dei confini dell’Ue, il Medio Oriente non sarà più solo una terra remota, dilaniata dai conflitti, ma affascinante, sarà soprattutto il vicino di casa. Ma proprio mentre Patten annuncia fiero: "Siamo vicini all’inizio del gioco finale" con Damasco, il sottosegretario americano per il controllo degli armamenti, John Bolton, vice di Colin Powell ma vicino a Donald Rumsfeld, accusa il governo di Bashar el Assad di sviluppare armi di distruzione di massa, di favorire l’infiltrazione di miliziani in Iraq attraverso i suoi confini, di continuare a finanziare il terrorismo palestinese. La Commissione europea, invece, nel marasma mediorientale cerca di portare a casa accordi commerciali con il paese che ospita la sede centrale del gruppo armato palestinese Hamas, che la stessa Unione ha messo al bando solo pochi giorni fa. C’è qualcosa che non torna. Certo, gli affari sono affari, ma l’Ue fa parte del Quartetto (con Usa, Onu e Russia) che ha creato, voluto e difeso la road map e le condizioni in essa contenute, come il disarmo delle organizzazioni terroristiche e dei gruppi armati. Hamas ha sede a Damasco, Hezbollah e Jihad agiscono da quel Libano che vede ancora la presenza di truppe siriane sul suo territorio e che senza la Siria non proferisce verbo. Per la Commissione europea, inoltre, una delle condizioni essenziali alla base di tutti i trattati tra l’Unione e i paesi terzi è il rispetto dei diritti umani e dei principi democratici. Tanto che il presidente Romano Prodi ha più volte sottolineato il suo scetticismo nei confronti dell’ingresso nell’Ue della pur democratica Turchia. Con la Siria, invece, spiega ottimista Patten, si può arrivare alla "fine del gioco". A Damasco, e Bruxelles lo sa bene, la situazione dei diritti umani è inaccettabile, anche dopo i progressi avuti all’indomani della firma della dichiarazione di Barcellona nel ’95, con cui nasceva il progetto di una zona mediterranea di libero scambio e in cui il governo siriano si è impegnato al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. E gli accordi di associazione hanno qualcosa di simile a quelli di libero scambio, ma vanno oltre la dimensione prettamente commerciale. Si tratta di patti che l’Unione ha
già stipulato a livello mediterraneo con più di dieci paesi, tra i quali Marocco, Tunisia, Egitto, Israele.
Viene da chiedersi se questa smania di accordi di associazione, proprio ora, proprio con la Siria messa sotto accusa anche dal "moderato" Powell, non avrebbe potuto almeno essere posticipata. Ci si chiede anche se non si tratti dell’ennesima prova di tempismo e di acume strategico del commissario Patten che non sembra godere del dono della lungimiranza. Nel febbraio 2002, quando Washington parlava già di Asse del male, tra cui faceva bella mostra l’Iran,
Patten si ergeva a paladino di un revival di relazioni tra l’Ue e Teheran capaci, a suo dire, di incoraggiare riforme all’interno del governo e di migliorare la situazione nel campo dei diritti umani nel paese; Europa e Iran discussero allora di cooperazione commerciale ed economica. Una politica che cozzava con quella di Washington che mirava a isolare la Repubblica islamica. Poi però sul finire dell’estate, questa estate, l’Ue è ritornata sui suoi passi e non più con i toni amichevoli di chi parla d’affari, ma con i toni duri di chi mette in guardia un avversario: se Teheran non dovesse firmare il patto con l’Agenzia atomica internazionale, l’Ue provvederebbe con sanzioni. Altro che patti commerciali.
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