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Il Foglio Rassegna Stampa
17.09.2003 Sul "che fare" di Arafat
Morte, esilio o negoziato?

Testata: Il Foglio
Data: 17 settembre 2003
Pagina: 1
Autore: sei giornalisti
Titolo: «Risposte impossibili a una domanda pazzesca su Arafat»
Sul "che fare" di Arafat, pubblichiamo sei interventi usciti su Il Foglio del 17 settembre 2003.

1) Illusione di Stefano Mannoni

Premettiamo subito: Arafat non piace proprio a nessuno. "Ein Meister des Doppelspiels", come lo ha definito un giornale tedesco, egli sembra dare credito a tutti i peggiori pregiudizi che gli occidentali coltivano sugli arabi: falso, dispotico, violento, inaffidabile, corrotto. Ma la sorte vuole che sia lì dal 1959 e, bon gré mal gré, impersoni l’identità palestinese. Esiliarlo è uno scatto di rabbia comprensibile di fronte ai massacri degli ultimi tempi e al fallimento di Abu Mazen. Ma è un grave errore politico, sia perché ne farebbe un martire nel momento stesso in cui l’Unione europea
compiva i primi passi per isolarlo e ridimensionarlo, sia perché la sua influenza rimarrebbe intatta sul movimento. E poi diciamocelo francamente. Se Arafat gode ancora di un cospicuo margine di manovra ciò va ascritto a nodi che rimangono ancora tutti irrisolti sul versante della politica israeliana e statunitense circa l’attuazione della road map.
Passiamoli in rassegna brevemente: 1) le colonie ebraiche in Cisgiordania, ossia i settlement. Inutile girare intorno al problema. Fino a che governo israeliano e americano non si decideranno a congelare e gradualmente ridurre questi corpi estranei in terra altrui gli estremisti avranno dalla loro molti argomenti per alimentare la loro lotta. Ma esiste la volontà politica di provvedervi? Rebus sic stantibus, è lecito dubitarne; 2) l’impegno dell’Amministrazione Usa a favore del processo di pace in Palestina è oggi autentico. Ma si è perso molto tempo. Chi non ricorda le gite inutili di un patetico generale à la retraite prima dell’11 settembre e chi ha dimenticato le rozze prese di posizione pregiudizialmente filoisraeliane dei falchi repubblicani. Con le elezioni presidenziali alle porte c’è da temere che i cattivi consiglieri trovino rinnovato vigore; 3) il famoso vallo o limes in via di costruzione non segue i confini del 1967 ma taglia territori e villaggi che sono tutti palestinesi, alimentando un senso di claustrofobia, di una "gabbia" circondata da checkpoint e insediamenti ostili, che ha turbato persino un osservatore non sospetto come Thomas Friedman; 4) e poi che senso ha il muro in vista dell’ormai inesorabile sorpasso demografico cui
Israele deve rassegnarsi in casa propria nell’arco di pochi anni? Tenere a bada i palestinesi al di là del confine e gestire il crescente numero di cittadini arabi in casa propria, ha l’aria della quadratura del cerchio; 5) già nel 1936 Ben Gurion di fronte alla rivolta araba scriveva che i fattori in gioco erano due: (a) "la debolezza numerica degli ebrei"; (b) "la dottrina violenta dell’Islam". Da allora non sembra essere cambiato molto, ma in realtà qualcosa si può fare sul secondo fronte: ossia quello di disinnescare il risentimento palestinese. Come? So che la parola mandato internazionale, trusteeship, non piace a molti perché evoca sia i ricordi dell’esperienza britannica fra le due guerre, sia i non pochi fallimenti dell’Onu. Eppure questa volta potrebbe essere la soluzione giusta, a dispetto del fatto che a sponsorizzarla siano i fatui francesi.
Fare uno Stato palestinese I guai in Palestina sono cominciati nel 1920 con un mandato e potrebbero essere avviati a soluzione oggi nella stessa forma: strano, ma plausibile. Perché innanzitutto una forza multinazionale sotto l’egida dell’Onu e degli Stati Uniti disimpegnerebbe le forze israeliane e creerebbe un’intercapedine tra le due comunità. Perché responsabilizzerebbe la comunità internazionale in prima persona di fronte al terrorismo, di cui avrebbe l’incombenza di arginare la violenza. Infine, perché senza l’esperienza
dell’Onu è ben difficile che i palestinesi da soli riescano nella missione
di un’efficace State and Democracy Building. A questo punto Arafat diventerebbe
realmente "irrilevante". E’ il successo della ricostruzione la misura del suo declino. Stabilite le condizioni minime di sicurezza si potrà allora valutare se la soluzione dei due Stati o quella di une federazione, o altre formule
ancora siano praticabili. Ma si può stare certi che colpire il terrorismo sbarazzandosi di Arafat è, allo stato delle cose, una pura e pericolosa illusione. Nient’altro che wishful thinking.
2) Pericolo di Gianni Baget Bozzo
Yasser Arafat è il problema o può essere una soluzione del problema? Nel primo caso non ci sarebbe altra strada che l’occupazione israeliana del territorio palestinese in una forma di annessione della Cisgiordania allo Stato ebraico, come una sorta di governatorato. Includere i palestinesi come cittadini nello Stato ebraico vorrebbe dire negare la figura dello Stato ebraico. Vi è un’alternativa a una tale soluzione impossibile che non passi per le mani di Arafat? Chi potrebbe sostituire il presidente palestinese cacciato o morto
e trattare con Israele? Sharon è giunto a un culo di sacco e vi ha condotto gli Stati Uniti: non si può pensare a una soluzione del problema palestinese in forma rispondente alla legittimità internazionale senza trattare con le autorità palestinesi. E la legittimità palestinese passa ormai per Arafat ed è un errore pensare che potesse essere diversamente. Non vi è dunque alternativa per Israele che quella di accettare di trattare indirettamente con Arafat mediante il governo da lui nominato. L’uso della forza ha un limite: ed eliminare Arafat significa togliere alla forza israeliana il pensiero del proprio limite. E’ un problema che è esistito fin dall’inizio, anche se il concetto di non avere limiti ha corrisposto prima al nazionalismo arabo che al sionismo. Ora i termini sono rovesciati e Israele deve decidere se può imporre ai palestinesi la perdita della loro autonomia politica come condizione di poter vivere accanto a Israele. Siamo giunti a un punto che non ammette ritorni: o Israele accetta il principio che solo la forza fa il diritto o riconosce anche il diritto di chi non è anche in posizione di forza. L’uccisione o l’espulsione di Arafat trasformerebbero definitivamente la questione palestinese da un contrasto tra palestinesi e israeliani in un conflitto tra giudaismo e islam. Non vi è dubbio che esisterebbero le condizioni, dal punto di vista della tradizione musulmana, che obbligano tutti i musulmani a venire incontro a un popolo musulmano a cui viene negato il diritto di esistere. Il vero vincitore dell’eliminazione di Arafat sarebbe Osama bin Laden. E le prime vittime sarebbero i civili israeliani e le truppe della coalizione in Iraq. Non nella guerra irachena, che ha invece mostrato l’accettazione diffusa della legittimità dell’intervento americano nel mondo islamico, ma quella palestinese sarebbe la vera causa della vittoria del terrorismo nel mondo islamico.

I problemi con Washington
E’ difficile comprendere dove vuole arrivare il governo israeliano, che pure incontra nella sua linea di rottura con l’Autorità palestinese il consenso del suo popolo. Sharon non ha delineato alternativa alla sua politica, che sembrerebbe consistere in un governo fantoccio palestinese non si sa da chi composto: e condurrebbe alla rottura del rapporto di stretta collaborazione tra Usa e Israele. Proprio mentre gli Stati Uniti sono tesi a una politica di introduzione della democrazia nel mondo islamico, Israele agirebbe negando ai palestinesi il diritto all’autogoverno. Washington non ha certo simpatie per Arafat ma quello che Sharon ha ottenuto è di porre Bush a difesa della road map e quindi inevitabilmente dell’attuale Autorità palestinese che sola
ha la legittimità per negoziarla. Israele pensa a un diritto sacro sul territorio di Giudea e Samaria, indipendentemente dalla volontà e dalle decisioni del popolo che vi abita: non è certo il sionismo ad avere avuto questi obiettivi. Il sionismo voleva uno Stato per gli ebrei, ma non intendeva fondarlo su un regime di oppressione di un altro popolo in forme che non potrebbero nemmeno definirsi coloniali. E quando mai è esistita nella tradizione ebraica l’idea di un potere di Israele sugli altri popoli che non fosse l’effetto dell’avvento del Messia e di un cambiamento della natura del mondo? Un giudaismo senza messianismo divenuto ideologia di un potere militare non c’è nella tradizione ebraica. Sono problemi da sempre latenti e non è certo un bel successo della politica di Sharon che essi si giochino attorno alla figura di Arafat. Non ci rimane che la speranza del ritorno di Israele al tavolo della road map e che le parole del governo di Gerusalemme siano state solo un’arma di pressione per indurre Arafat e Hamas alla trattativa.
3) Pragmatismo di Giorgio Israel
Tutti sanno chi è Arafat, eccetto chi fa finta di non saperlo: uno dei padri
del terrorismo moderno, responsabile della morte di migliaia di vittime e delle sciagure del suo popolo, per la costituzionale incapacità di agire se non con il terrore. Fa finta di non saperlo chi ha visto l’intervista alla televisione palestinese in cui, con osceno sorriso, egli esalta il "sacrificio" dei martiri-bambini. Non è quindi il clamore dei sepolcri imbiancati che deve influenzare la discussione circa la sorte che spetta ad Arafat. Quei sepolcri trovano (giustamente) naturale che Mussolini sia stato passato per le armi, rimpiangono che non si sia riusciti a uccidere Hitler per tempo e magari anche che Stalin non sia stato avvelenato. Trovano persino (e assai meno giustamente) naturale che si dedichi una strada a colui che abbatté per strada Giovanni Gentile. Ma sono pronti a levare altissime grida di fronte all’esilio o all’esecuzione di un terrorista efferato. Se Arafat è tanto caro a parte dell’Europa e del mondo "onusiano", è perché rappresenta la materializzazione di quella cattiva coscienza che l’ha trasformata – per usare l’espressione di Finkielkraut – in "giudice-penitente". Giorni fa, Claudio Magris ha scritto un articolo contro la tortura (Corriere della Sera, 8 settembre) dal significativo occhiello: "L’Occidente liberale perde e rinnega se stesso", pieno di osservazioni giuste e condivisibili ma viziato da un singolare strabismo: vi si cita come "grande" il film "La battaglia di Algeri" di Gillo Pontecorvo (1966), come l’espressione del meglio della coscienza europea. Peccato che rivedere quel film oggi mostri quanto quella coscienza fosse monca e ipocritamente unilaterale, poiché esso è pervaso dall’idea che il fine della liberazione nazionale renda legittimo far esplodere caffè affollati di civili. Dopo quarant’anni l’Europa vive ancora nel solco della seconda tragica resa petainista: la prima fu a Hitler, la seconda all’idea che uno Stato possa nascere sui corpi di donne, uomini e bambini trucidati dal terrorismo. E’ sotto gli occhi di tutti quale Stato possa nascere su simili basi, e mostra quali prospettive siano di fronte al Medio Oriente. Dopo quarant’anni siamo ancora alle prediche da monocoli, incapaci di vedere che l’Occidente liberale ha rinnegato (e rinnega) se stesso non soltanto quando ha accettato (e accetta) la tortura, ma quando ha legittimato (e legittima) il terrorismo come fondamento di uno Stato. Ma buona parte dell’Europa ritiene necessaria questa svendita dei propri principi, perché pensa, con la "penitenza" consistente nel giustificare il terrorismo con il colonialismo, di aver riacquisito un’autorità morale. Per questo Arafat è l’emblema dell’Occidente che ha rinnegato se stesso.

Scegliersi gli interlocutori
In questo quadro, la scelta fra le varie opzioni deve rispondere solo a un’analisi costi-benefici rispetto ai fattori del terrorismo, delle relazioni internazionali e dell’immagine. Arafat in esilio continuerebbe a tessere le sue trame terroristiche mentre il mondo della cattiva coscienza si farebbe palcoscenico della sua propaganda che ormai langue da tempo. D’altra parte, il nodo della questione è il radicamento del rifiuto di Israele nella mente dei palestinesi. L’eliminazione fisica di Arafat rafforzerebbe tale rifiuto, ed è poco credibile che possa determinare un rapido crollo dell’attività terroristica. I terroristi avrebbero in mano un santino, il mondo della cattiva coscienza giustificherebbe senza freni i più efferati attentati e i vantaggi acquisiti sul terreno dell’informazione verrebbero dispersi. La via per aiutare i palestinesi a liberarsi del radicalismo e per togliere linfa alla cattiva coscienza europea è marginalizzare in ogni modo la figura di Arafat, renderla sempre più insignificante in quanto immagine. Meglio rafforzarne l’isolamento nella tana della Mouqata, lasciarlo al suo inevitabile declino. Forse Israele dovrebbe decidere non solo di non avere rapporti con Arafat, ma di cancellare ogni riferimento al suo nome in qualsiasi atto ufficiale. Come se fosse morto. Difatti, una delle massime sciocchezze circolanti è che uno non possa scegliersi gli interlocutori.
La storia dimostra il contrario.
4) Ipocrisia di Elena Loewenthal
C’è una melodia ebraica che fa parte del rituale di Pasqua: s’intitola "Dayenu", cioè "ci sarebbe bastato". Dal canto alla minestra il passo è breve, e così dayenu è diventato un brodo sostanzioso. Il ritornello enuncia tutti i miracoli divini, e fa ammissione di complimento: questo e quell’altro, ci sarebbero bastati, eppure il cielo non ha risparmiato prodigi. Mi sarebbe bastato qualora lo avessero chiesto ad altri, che cosa vogliono fare di Arafat. Invece, con generosa esuberanza, è stato chiesto anche a me, e così mi atterrò a quel che ha detto un grande maestro della tradizione ebraica, millennio più millennio meno fa: "Non spetta di certo a te completare l’opera, ma non ti è data facoltà di tirarti indietro dall’impresa". Non spetta di certo a me entrare nei dettagli di uno scenario politico complesso ai limiti del paradossale – e non c’è niente di più inestricabile del paradosso. Ma dispongo di una mia ragione per ritenere che l’emarginazione di Arafat sarebbe un passo avanti. Arafat è un personaggio storico. Ma obsoleto. A dirla in un modo molto cattivo, non è più trendy. Da quando ha abbandonato una lunga stagione di terrorismo gestito in prima persona, armi in pugno, il tratto dominante di Arafat è stata l’ipocrisia: una faccia di qua e una di là. Un discorso al mondo e uno alla nazione. "Ipocrita" in ebraico si dice "tzavua": nella Bibbia è il nome di un animale. La iena. Ma la stessa parola significa anche "tinto", colorato. Il camaleontismo può essere un sistema per sopravvivere (a volte l’unico che ti è dato di scegliere), ma farne una strategia politica alla lunga diventa rischioso, in tempi come questi di diffusione mediatica. Prima o poi qualcuno se ne accorge. Prima o poi qualcuno pesca un giornale e trova una citazione in lingua originale. Prima o poi l’inquadratura mette a fuoco il momento sbagliato. E poi, l’ipocrisia è stata espunta dall’armamentario demagogico: s’usa più il fondamentalismo. Bin Laden parla fin troppo chiaro, tanto ai suoi quanto a Bush e a tutti noi. L’ipocrisia è sostanzialmente fuori moda, come modello di comportamento pubblico: siamo in un’epoca di eccessi, non di reticenze. Di convinzioni esasperate, più che di ambiguità ammiccate o meno. Arafat invece da una parte prova ad ammaliare con un sorriso blando, dall’altra prova a ruggire con dei conati bellicosi. Ha sempre fatto così, da quando ha mollato apertamente le armi per costruirsi il ruolo di leader del suo popolo. La sua voce è allenata a prodigiosi alti e bassi. La sua figura è pronta a intingersi in colori diversi a seconda dei momenti, delle circostanze, della compagnia.

Quel gesto di vittoria per la pace mancata
Questa ipocrisia merita l’emarginazione, per mille motivi di sostanza. Per mille e uno: perché è anche obsoleta, accantonata ormai dalla storia. Arafat non cambia, questo è e resta il suo assurdo pragmatismo. Intorno a lui, la classe politica palestinese si muove diversamente, a prescindere dai fronti sui quali milita. Ha un diverso concetto della serietà politica. Per lui no, per lui resta il gioco di un sorriso di qua, una mano tesa verso un volto di bambino, e un ruggito rauco di là, a fomentare rancori sterili e giubbotti imbottiti di esplosivo. Unica svista, in questi anni di doppiezza, l’obbrobrioso gesto di trionfo (la V con due dita), reduce del fallimento di Camp David due, che vide tornare un Barak disfatto. Arafat lui invece, come per un magico ed effimero sovrapporsi di due immagini solitamente contrastanti e invece in quel momento unite in un perfetto combaciare, diceva "evviva" (e lo diceva a tutto il mondo sbigottito da quell’immagine) perché non s’era riusciti a far la pace. Abbiamo vinto perché non ci siamo messi d’accordo! Quel gesto, destinato in origine a un "pubblico interno", sforò gli schermi di mezzo mondo. Fu la sublimazione della sua doppiezza, svelatasi per quell’attimo sfuggente: ma come, esulta per il fallimento del negoziato di pace? Ma come, non era andato a cercarla, la pace tanto decantata? Ed è contento per non averla trovata? Come ha detto Sayed Kashu, un giovane
scrittore palestinese alla fine del suo "Arabi Danzanti" (pubblicato in Italia da Guanda): "Mio papà odia gli arabi, dice che è meglio essere servi di un nemico che servi di un leader del tuo popolo".
5) Sicurezza di Riccardo Pacifici
Cosa bisogna fare di Arafat? Da buon ebreo risponderò a domanda con un'altra domanda, cosa vuole fare Arafat di Israele e degli ebrei? E’ una domanda doverosa che viene da un ebreo sionista della diaspora, il quale come scherzosamente si dice, "non comprerebbe mai un auto usata da lui". Sono anche uno di quelli che continua a pensare a lui come il terrorista della strage di Maalot. Quella strage che vide l’Olp negli anni 70 massacrare bambini di un asilo. Eppure è una domanda che giunge, da un ebreo, che pur non amandolo, festeggiò fuori della Sinagoga con canti e balli la famosa stretta di mano di Camp David fra lui e Rabin. Sembrava per noi tutti la fine di un incubo: la pace che si stava costruendo dopo 5 guerre, dopo che negli anni 80 la galassia delle organizzazioni legate all’Olp aveva fatto stragi di ebrei in mezza Europa, fuori delle Sinagoghe, ristoranti e scuole ebraiche. Una pace anche dopo che aveva colpito la mia città, Roma. Dopo la strage di Fiumicino e di via Veneto al caffè di Paris, ma soprattutto dopo che aveva assassinato un bambino di due anni il 9 ottobre 1982, fuori della grande Sinagoga e tra i 40 feriti lasciò tra la vita e la morte per tre mesi mio padre Emanuele. A causa di quei "sassi" pieni di esplosivo, che comunemente vengono definite bombe, lui porta ancora oggi le schegge dentro le carni e un busto. Quei "sassi" che potrebbero suscitare in me rancore, ma nei fatti si traducono solo nella ricerca di un po’ di giustizia nei confronti del "maestro del terrore" Arafat per questi crimini. Una sentenza che per realismo allontaniamo pur di arrivare alla pace.

Chiedetelo agli israeliani
Su cosa fare di Arafat, credo infine sia giusto rivolgere tale domanda a ogni singolo israeliano, che nel bene o nel male pagheranno le conseguenze della pace o della guerra. Da Madrid a oggi, Arafat ha potuto interloquire con diversi primi ministri israeliani e di diverso orientamento, con Shamir, Peres, Rabin, Netanyahu, Barak e Sharon e spesso è stato l’arbitro dei risultati elettorali in Israele. Per questo credo si debba giudicare la decisione del governo Sharon di espellere Arafat – e perfino quella del vice primo ministro Olmert che "osa" parlare della sua eliminazione, come estrema ratio – comprendendo la disperazione di una nazione, quella israeliana, che non riesce più a garantire ai propri cittadini una vita senza kamikaze. I media e le forze politiche nel mondo, giudicano Israele, come se fosse un
paese normale, capace di risolvere le controversie territoriali, come facciamo in Europa dal Dopoguerra, dimenticando che Israele non hai mai avuto un giorno di pace dal 1948 e che ha avuto contro non un solo nemico, ma tutti i paesi arabi (escluso l’Egitto dal 1979 e la Giordania dal 1994). Il nemico Arafat è
quello che nel 2000 a Camp David ha rifiutato le generose offerte di Barak e oggi non rivendica più nulla, se non la distruzione dello Stato d’Israele. C’è un popolo, quello palestinese, ormai malato di odio, i cui
componenti scendono in piazza a gioire, come belve tribali, quando un kamikaze si fa saltare in aria tra i civili israeliani, godendo delle lacrime di disperazione di mamme che seppelliscono i propri bambini. C’è una società,
quella palestinese, che ha la necessità di un nuovo leader (quella che
noi in Europa definiamo democrazia dell’alternanza) che la smetta d’incitare
il suo popolo all’odio e che la finisca di usare i fondi dell’Unione europea per educare i bambini palestinesi al "martirio" sin dalle scuole elementari. Noi europei abbiamo questa responsabilità. Noi ebrei della diaspora abbiamo il
dovere di sostenere la democrazia israeliana.
Non capire che Israele è un paese in guerra contro il terrorismo come oggi fanno molte delle democrazie occidentali, per difendere i propri cittadini, sarebbe un gravissimo errore. Difendere i cittadini a qualunque prezzo. Compreso quello che ognuno di noi che vive in case sicure può pensare sia un metodo non "politicamente corretto".
6) Eliminazione di Angelo Pezzana
Non è vero che la storia non si ripete. Si ripete eccome. Mentre 6 milioni di ebrei 60 anni fa venivano sterminati dai nazisti nel silenzio e nell’indifferenza di chi sapeva e doveva intervenire, ma non lo fece, fatte le debite differenze ecco di nuovo 6 milioni di ebrei in pericolo, solo che questa volta si chiamano oltre che ebrei anche israeliani, cittadini di uno Stato che 60 anni fa non c’era ancora per la volontà criminale di un’Europa che non lo permetteva, che, allora come oggi, faceva i suoi meschini calcoli numerici e petroliferi blandendo e sottomettendosi al volere degli Stati arabi. Che allora erano con Hitler. Soli allora, di fronte alle dittature e alle democrazie, di nuovo contro il mondo oggi quando, per difendere la sua sopravvivenza, Israele è obbligata a ricorrere alle armi. Mai nessun capo di Stato ha ritenuto suo compito rivolgere moniti o consigli a capi di governo stranieri, nemmeno quando in questione potevano esserci crudeli dittatori. Con Israele è diverso. E’ l’unico Stato al mondo che deve sentirsi dire come deve e come non deve comportarsi. E’ contro Israele che l’indecente dito viene puntato. Lo sceicco Yassin, che predica "l’uccisione degli ebrei ovunque essi siano" è "una guida spirituale". Non mi risulta che il presidente Ciampi gli abbia mai rivolto rimproveri. Quando si tratta di Israele la stessa nozione di terrorismo si avvolge in fitte nebbie, non si capisce più chi sia il carnefice
o la vittima. Sommo fra i criminali, il più abile a manipolare informazione
e politica è Arafat. Che dietro a metà delle stragi che da 40 anni insanguinano
Israele ci sia lui, non ha impedito che venisse ricevuto in tutto il mondo con accoglienza calorosa, dal Papa ai capi di Stato. Israele no. Quel dito indecente continua la sua azione di condanna. Quando dimostra coi fatti (Egitto, Giordania) di essere pronta alla pace, non importa. Quando è pronta a concedere ad Arafat (Camp David) praticamente quanto chiede, non importa, Arafat rifiuta ma la colpa è di Israele. E’ lecito dire che un governo ha non solo il diritto ma il dovere di colpire i mandanti, non solo gli esecutori, di quel terrorismo che ha come fine ultimo la distruzione dello Stato stesso?
E cosa vuol dire tutto ciò se non uccidere per impedire di venire uccisi? L’opzione estrema comporterebbe che: 1) il formarsi di una dirigenza palestinese pragmatica, che c’è, ma non può mostrarsi pena la sua decapitazione da parte del rais. Abu Mazen insegna; 2) conosciamo la mentalità araba e anche cosa significhi vivere sotto un dittatore, come gli iracheni "votavano" per Saddam al 99 per cento, per poi festeggiarne la caduta, così i palestinesi, liberati da Arafat, comincerebbero a esprimersi liberamente. E come hanno fatto recentemente (inchiesta di un istituto di ricerche svizzero) confermerebbero che la loro fiducia in Arafat coinvolge solo il 22 per cento di loro; 3) l’Europa, vile e cinica com’è ne prenderebbe atto; 4) scomparso l’ombrello Arafat, che garantiva finanze e presentabilità, anche i professionisti stabili delle stragi (Hamas&Co.) verrebbero a miti consigli.

Le regole della lotta sono uguali per tutti
Analisi radicale? Forse. Previsioni troppo ottimiste? Forse. Ma Israele, oltre
a star lì ad ascoltare consigli, cosa deve fare dopo averle tentate tutte? Se la lotta al terrorismo ha le sue regole, eliminare i terroristi prima che loro eliminino noi perché questo non deve valere per Arafat? Certo la scelta che Israele ha di fronte fa tremare. Ma la saggezza democratica di un paese che ha retto malgrado le prove terribili alle quali è stato sottoposto fin da quando è nato ci fa sperare bene. Finché vedremo il pacifista israeliano Uri Avneri abbracciato ad Arafat alla finestra della Mouqata mentre dichiara che sarà il suo scudo umano, ebbene, quel paese ci fa capire di essere terribilmente forte. Sul piano morale, civile, democratico. Dopo aver abbracciato l’assassino di tanti suoi concittadini, Uri Avneri è rientrato tranquillo a casa sua. Nessuno è andato a bussare alla sua porta. Un paese che garantisce in questo modo la sua opposizione non sara mai sconfitto da nessun terrorismo. Deve avere però la convinzione di essere nel giusto quando ci sono da prendere decisioni gravi. Quando in gioco è la sua stessa esitenza. L’ostacolo oggi ha un nome: Arafat. Assolutamente da rimuovere.
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