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La Stampa Rassegna Stampa
15.09.2003 Israele contro Arafat ? allora si trasforma in eroe
un burattinaio che troppi aiutano

Testata: La Stampa
Data: 15 settembre 2003
Pagina: 5
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Le minacce di Gerusalemme ridanno il sorriso al Raìss»
Riportiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa lunedì 15 settembre 2003.
ARAFAT è di ottimo umore da quando Israele ha deciso di esiliarlo, e ancora di più, da quando, ieri, alla riunione di gabinetto il vice primo ministro Ehud Olmert ha rincarato la dose sostendendo che sarebbe meglio magari ucciderlo. Il Raíss ha salutato tutto il giorno con ampi gesti dalle finestre di Mukhata e con frequenti uscite la folla che lo ha onorato con canti, balli, innalzamento di grandi ritratti. I palestinesi, insieme a gruppi della sinistra israeliana e a svariati visitatori europei, di nuovo lo difendono col loro corpo, come quando, esattamente un anno fa, i carri armati minacciarono di radere al suolo la Mukhata.
La gente uscì già allora per le strade offrendo la propria fedeltà ad Arafat che attrasse l'attenzione internazionale e convinse il re saudita Fahd a chiedere al presidente Bush di trattenere Israele dall'entrare a Mukhata. Anche allora fioccavano su Israele gli attentati terroristi, con l'operazione Muro di Difesa furono assemblati una quantità di documenti che, secondo il governo israeliano, provavano il coinvolgimento di Arafat nel finanziamento e nell'approvazione di una quantità di azioni terroriste. Ma il mondo intero reagì in difesa di Arafat. Chi non ricorda la luce delle candele sul suo volto filmato dalle telecamere della Cnn, nella semisegregazione che più tardi, quando Bush impose il rinnovamento della leadership col nuovo primo ministro Abu Mazen, si rivelò fisica, ma non politica: Arafat seguitava a comandare, a gestire il denaro e le milizie e anche la strategia. Israele non era riuscito ad emarginarlo, e ora, con queste minacce che potrebbero diventare effettive se ci sarà un altro grande attentato, lo ha di nuovo vivificato.
L'ambasciatore americano Dan Kurtzer aveva già avvertito il consigliere di Sharon, Dov Weisglass, alla vigilia della sua partenza per Washington che sarebbe stato inutile andare a Washington per discutere la possibilità di esiliare Arafat, e ancor meno di ucciderlo: gli Stati Uniti infatti avrebbero identificato in un’operazione del genere il fallimento del progetto di Bush di rinnovamento democratico del Medio Oriente. Ma Weisglass è andato ugualmente a farselo dire. Da qui, una delle più strane fra tutte le decisioni di Israele, che in genere prima agisce e poi avverte il mondo. Ebbene l’annuncio sulla decisione dell’esilio ha creato prima di tutto un nuovo compatto sostegno per il Raíss fra i palestinesi e nel mondo arabo, e poi ha allineato su posizioni filopalestinesi un consesso internazionale che era scosso dal terrorismo contro gli israeliani e anche dal modo brutale con cui Arafat aveva fatto fuori Abu Mazen per sostituirlo col fedele Abu Ala. Il quale, ora che Arafat è di nuovo così amato, così compattamente sostenuto, è destinato a contare come il due di picche.
Ma perché Israele ha preso una decisione così «stupida», come l’ha definita l'editoriale del giornale Ha'aretz e come molti Israeliani ripetono? Intanto c'è il consueto motivo del consenso che Sharon cerca, in mancanza di una politica più concreta, dopo gli attentati. Ma la risposta più semplice e diretta è quella di uno degli uomini del ministero degli Esteri Ilan Sturmann: «I conti basilari che Israele deve fare sono quelli del numero dei morti che costa al nostro Paese la presidenza di Arafat». L’ultima vittima, morta venerdì dopo una terribile agonia, è una donna di 37 anni, Tova Lev, che era rimasta ferita nell’attentato kamikaze contro l’autobus il 19 agosto. E ieri sono state trovate tre cinture esplosive a Gerusalemme Est.
Nella vita impossibile che la gente conduce sta il senso degli incauti annunci del governo di Sharon. E' la tragica complessità della guerra al terrorismo che porta a delle autentiche rotture degli schemi tradizionali della politica, gli stessi per cui certo è immorale eliminare un terrorista di Hamas senza processo, ma se una non eliminazione viene pagata con un autobus che salta per aria, allora il problema etico si presenta in termini diversi.
Dice Ruby Rivlin, ministro delle Comunicazioni del governo Sharon: «La presenza di Arafat alla testa dei palestinesi è ciò che impedisce la pace, perché i suoi piani e la sua strategia non prevedono un accordo, ma una guerra fino alla conquista di tutta la Palestina. Inoltre, dal tempo dell'eccidio di Monaco, il metodo usato è quello del terrorismo. Non possiamo permetterci di continuare così». Avraham Burg, ex presidente del Parlamento è furioso e scandalizzato dalle dichiarazioni di questo tipo. Ripete che comunque Arafat è il capo prescelto dai palestinesi e che dunque è ora di parlare con lui e basta. Ma gli americani, che di nuovo per bocca di Colin Powell hanno condannato le minacce di espulsione ed eliminazione, pure (risulta da una fonte palestinese che non vuole essere citata) stanno già premendo con forza su Arafat perché non approfitti della situazione per far fuori anche Abu Ala.
Gli Usa, dopo l’11 settembre, non corrono certo il rischio di trascurare il problema del terrorismo. Mentre per l’Onu, che si accinge all'ennesima risoluzione di condanna di Israele, il terrorismo sembra quasi essere un fenomeno minore. E lo stesso vale per molti europei che chiedono di «lasciare in pace» Arafat.
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