25/6/02 Chi finanzia il terrorismo il giornalista porta a minimizzare le ragioni di Israele
Testata: Il Sole 24 Ore Data: 23 giugno 2002 Pagina: 1 Autore: Claudio Gatti Titolo: «un articolo»
TERRORISMO E FINANZIAMENTI
Pubblichiamo integralmente l'articolo di Claudio Gatti uscito sul Sole 24ore di domenica 23 giugno 2002 Non lo commentiamo anche se lo meriterebbe. Invitiamo invece i nostri lettori a leggerlo perchè è denso di cifre interessanti, anche se la presa di posizione del giornalista porta a minimizzare le ragioni di Israele nelle lotta al terrorrismo e ad esaltare invece i "numeri" che riguardano i palestinesi, escludendo ogni giudizio e valutazione di ordine etico-politico. Un articolo che rivela in pieno la scelta pregiudiziale in favore di una parte del giornale della Confindustria, che ogni tanto,per dare un contentino,si lascia andare a pubblicare qualche articolo (pochissimi) a "difesa". Dalla lettura i letttori di IC potranno trarre buoni spunti per scrivere e protestare con il quotidiano milanese.
QUESTO IL LUNGO TITOLO DELL'ARTICOLO DI CLAUDIO GATTI
Gerusalemme contesta gli aiuti che molti Governi del mondo concedono all'Anp di Yasser Arafat: finanziano le attività terroristichePioggia di denaro sulle stragi palestinesiLa Ue sarà presto portata in tribunale ma Bruxelles respinge tutte le accuse - Lo strano ruolo dei monopoli israeliani in Cisgiordania di Claudio Gatti
ECCO IL TESTO:
In Israele le stragi non danno segno di diminuire. Ogni settimana si contano nuove vittime, e il Governo di Sharon è sempre più infuriato. Con Hamas, con Hezbollah e soprattutto con Yasser Arafat, ritenuto corresponsabile della strategia degli attentati-suicidi. Non solo: il Governo, e parte dell'opinione pubblica, hanno accusato anche l'Unione europea di contribuire al ripetersi di questi bagni di sangue. «Bruxelles sta continuando a finanziare l'Autorità nazionale palestinese incurante del fatto che Arafat usa i suoi fondi in parte anche per finanziare attentati», dice al "Sole-24 ore" l'avvocato Nitsana Darshan-Leitner. «In questo modo, più ancora dell'Iran, l'Unione europea si sta rendendo responsabile di attività terroristiche contro civili israeliani». L'accusa è pesante. Ma Darshan-Leitner è convinta di poterla provare in tribunale. Per questo, il 20 maggio scorso, ha querelato l'Unione europea a nome dei Blumberg, una famiglia di coloni ebrei vittima di un attacco terroristico palestinese apparentemente condotto da un membro dell'apparato di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Danni richiesti: 20,5 milioni di dollari. L'avvocato preferisce non scoprire le proprie carte prima del processo, previsto per il prossimo autunno, ma preannuncia che farà uso delle recenti rivelazioni fatte dal Governo sulla base di documenti sequestrati durante i recenti raid negli uffici dell'Autorità nazionale palestinese. «L'Unione europea finanzia circa il 10% del budget dell'Anp, che a sua volta utilizza fondi intesi a pagare il salario dei propri funzionari, in particolare dei membri dell'apparato di sicurezza, per finanziare le sezioni locali di gruppi terroristici come le brigate Tanzim e al Aksa», ha dichiarato Daniel Naveh, il ministro per i Rapporti con il Parlamento responsabile di un'inchiesta sulle attività dell'Autorità palestinese conclusasi con un j'accuse di oltre 100 pagine carico di pesanti imputazioni - dal finanziamento di attività terroristiche alla corruzione. Dal 1994 ad oggi i Paesi europei hanno sborsato oltre 2,1 miliardi di dollari in aiuti ai palestinesi. L'Italia, da sola, ha già stanziato più di 130 milioni di dollari in aiuti unilaterali, a cui si devono aggiungere il 12% dei contributi Ue e le partecipazioni agli aiuti delle varie organizzazioni internazionali. E poiché non c'è motivo di pensare che nei prossimi 5-10 anni la domanda verrà meno - gli aiuti europei continuano oggi al ritmo di decine di milioni di dollari al mese - «Il Sole-24 Ore» ha voluto analizzare la fondatezza delle accuse israeliane e capire se i denari dei contribuenti italiani ed europei finiscono effettivamente col finanziare terroristi, corrotti e truffatori. L'accusa. Il rapporto di Naveh non si limita a denunciare il fatto che i finanziamenti europei sono usati male e per scopi criminali, ma lancia accuse specifiche. Parla di un conto sulla banca giordana al-Urdan - il numero 01810058/4 - da cui il consigliere economico di Arafat, Marwan Barghouti, avrebbe tratto soldi per finanziare centinaia di attivisti di al Fatah e di altri gruppi impegnati in attività terroristiche. Parla di fondi dell'Ospedale Sheikh Zayyad di Ramallah, finiti nelle tasche del governatore della provincia. Parla di funzionari del ministero dell'Agricoltura che hanno stornato fondi europei destinati all'acquisto di orzo. Parla di alti funzionari della Anp che si sono arricchiti grazie ai monopoli di cemento e benzina. E parla di fondi non contabilizzati nel budget della Anp che alimentano la corruzione e le attività terroristiche. La difesa. L'Intifadah iniziata nell'autunno del 2000 ha vanificato anni di lavoro e di investimenti della comunità internazionale. Il reddito pro capite nei territori è da allora calato in media del 15% all'anno, mentre il tasso di povertà è balzato a circa il 50%. E senza gli aiuti internazionali, soprattutto dei Paesi europei e arabi, l'embrione di Stato rappresentato dall'Autorità palestinese si sarebbe disintegrato. Basti sapere che fino all'inizio dell'intifadah circa due terzi delle entrate della Anp veniva dalle tasse raccolte dal fisco israeliano e poi trasferite ai palestinesi, e che da dicembre del 2000 Israele ha sospeso questi versamenti. Centinaia di milioni di dollari palestinesi rimangono quindi congelati in Israele. «La Anp è di fatto in stato di bancarotta. Tre quarti dei salari dei suoi dipendenti sono pagate dai Paesi donatori, senza il cui aiuto 122mila dipendenti pubblici (pari al 25% della popolazione occupata) non sarebbe potuta essere pagata», conferma un rapporto della Banca Mondiale. «Non c'è dubbio che investendo denaro nella creazione di impiego statale e parastatale si alimenta anche il clientelismo. È sempre successo, ovunque nel mondo, e i Paesi donatori hanno sempre saputo che succedeva, in proporzioni diciamo così fisiologiche, anche in Palestina. Ma fin quando l'eruzione dell'intifadah non ha cambiato tutto, i finanziamenti al budget della Anp sono stati limitati ai primi anni, quando l'Autorità non aveva altri modi per finanziarsi. Già nel 1998 quei finanziamenti erano ridotti all'osso», spiega Rex Brynen professore di scienze politiche alla Università McGill di Montreal, autore di uno studio sugli aiuti ai palestinesi. «A partire dal 1999 tutti i Paesi donatori, europei compresi, avevano cominciato a indirizzare i propri fondi su progetti di sviluppo. E se Israele non avesse sospeso i versamenti delle entrate fiscali, europei e arabi non sarebbero stati costretti a tornare a finanziare il budget della Anp». Le argomentazioni israeliane contro il finanziamenti europei alla Anp non convincono neppure il dottor Andrea Aloi, direttore dell'unità tecnica locale e responsabile della cooperazione italiana in Palestina: «Il fatto che nel Sud dell'Italia c'è la mafia significa forse che lo Stato debba astenersi dall'aiutare il Mezzogiorno? Se l'Unione Europea fa un finanziamento a un Comune o una Provincia del Sud dell'Italia e in quel Comune o Provincia c'è un dipendente colluso con la mafia, vuol dire forse che l'Unione europea sta finanziando la mafia? Quelle israeliane sono argomentazioni che non hanno fondamento, di pura natura propagandistica». Gli sprechi. Il semplice fatto che ci siano 50 Paesi donatori e che nei territori occupati sono impegnate in attività di assistenza decine di organizzazioni non governative, comporta senza dubbio un certo grado di inefficienza. Ma quanto alto? Come in quasi tutti i programmi di assistenza internazionale, sono stati segnalati anche qui svariati problemi. «I donatori seguono le proprie priorità, che non sempre corrispondono con quelle della Anp», si legge in uno studio della Banca mondiale sull'efficacia degli aiuti ai palestinesi, secondo il quale «troppi fondi rimangono off-shore, andando a finanziare assistenza tecnica e fornitori stranieri». Quest'ultimo problema è stato peraltro confermato del ministero palestinese per la Pianificazione e gli Aiuti stranieri, il cosiddetto Mopic, secondo i cui calcoli «il 70% dei finanziamenti internazionali finiscono per pagare fornitori stranieri e tecnici che spesso non parlano arabo né conoscono la realtà locale». Ma anche in questo caso, a detta degli esperti, si tratta di problemi tipici di un programma di aiuti esteso e complesso come questo. E per tenere sotto controllo gli sprechi, gli organi internazionali - Fondo monetario internazionale e Banca mondiale in testa - e i Paesi donatori non hanno mai smesso di chiedere, e a volte imporre, un incremento nel monitoraggio delle spese. «C'è uno stretto controllo nelle procedure di spesa, e ogni mese riceviamo un completo rendiconto, certificato dal Fondo monetario, di come sono stati spesi i soldi», ha chiarito alcuni giorni fa Jean Breteche, rappresentante dell'Unione europea in Cisgiordania e Gaza. La corruzione. Parlando di territori occupati, di Autorità nazionale palestinese e di Arafat, non sono solo gli israeliani a citare il problema della corruzione. Lo fa George W. Bush, e lo ha fatto anche Massimo D'Alema in una recente intervista. E un sondaggio tra commercianti e piccoli industriali palestinesi svolto dal ricercatore americano David Sewell per conto della Banca mondiale ha dimostrato che gli stessi palestinesi lo ritengono un problema grave. Il 71% di loro ha infatti citato la corruzione come il maggior ostacolo, dopo l'instabilità politica, alla crescita e allo sviluppo economico. «La stessa Anp ha ammesso che il problema esiste con il rapporto del suo revisore dei conti del febbraio 1996, in cui si denunciavano sprechi per 320 milioni di dollari e casi di corruzione riguardanti svariati ministri, incluso tra l'altro il ministro per la Pianificazione e gli Aiuti stranieri, accusato di dare contratti a una società egiziana di sua proprietà e un'altra di suo figlio - aggiunge il professor Brynen - Ma quando la Banca mondiale è andata a investigare le accuse, si è accorta che il rapporto del revisore dei conti era stato fatto in modo superficiale e che quella cifra era gonfiata». Dal sondaggio di Sewell è inoltre emerso che nei territori i pagamenti sottobanco e le bustarelle sono in realtà fenomeno molto più raro di quanto non siano in Egitto, in India e in buona parte del mondo in via di sviluppo. Il 79% degli intervistati ha infatti detto di non aver mai, o quasi mai, pagato impiegati pubblici per ottenere servizi, percentuale molto più alta di quella registrata dalla Banca mondiale in simili sondaggi effettuati in altri Paesi. «La corruzione in Cisgiordania non è peggiore di quella di casa mia», commenta un funzionario occidentale di una agenzia internazionale. «C'è tanta esagerazione, in parte alimentata da israeliani per scopi propagandistici - conferma Danny Rubenstein, editorialista del quotidiano israeliano Ha'aretz - In realtà il grado di corruzione è probabilmente più basso di quello di buona parte del Terzo mondo, ma a causa delle circostanze politiche se ne parla molto più di quanto non meriti». Ma se è così, perché gli uomini d'affari palestinesi ritengono che la corruzione sia un ostacolo alle proprie attività? «È probabile che la business community locale, più che a classici fenomeni di corruzione, si riferisca ad attività soprattutto non del tutto trasparenti, come il monopolio del petrolio e del cemento», spiega David Sewell. I monopoli e i fondi neri. Il ricercatore americano si riferisce all'accordo siglato 8 anni fa dall'Anp, e da allora silenziosamente rinnovato ogni paio di anni, che permette alla società di distribuzione petrolifera israeliana Droar Petroleum di operare sul mercato palestinese in esclusiva. «Si tratta di un monopolio di fatto. E ad assicurarsi che non venga infranto da nessun altro operatore è lo stesso apparato di sicurezza dell'Anp. Il sospetto, probabilmente fondato è che, in cambio della possibilità di operare in regime di monopolio, la società israeliana paghi tangenti all'Anp, o più probabilmente agli uomini di Arafat», spiega Brynen. «È sicuramente un problema, anche se è sempre stato stranoto agli israeliani, che hanno lasciato correre per rafforzare l'apparato di sicurezza di Arafat in funzione anti-Hamas». Lo stesso vale per il monopolio del cemento. In questo settore l'Anp controlla il mercato direttamente, attraverso la sua società di investimenti Pcsc. Ed è noto che il monopolio nella materia prima della più significativa attività produttiva dei territori - l'edilizia - dà la possibilità agli uomini di Arafat di stornare ingenti somme di denaro. «Anche in questo caso, nonostante i donatori si siano ripetutamente lamentati, Israele ha sempre dato il proprio beneplacito. L'80 per cento del cemento palestinese viene infatti da una singola società israeliana, la Nasher», conclude Brynen. «A me lo ha detto apertamente un funzionario di Gerusalemme: a Israele andava bene che Arafat avesse fondi da utilizzare per il proprio apparato di sicurezza senza dover render conto a nessuno. E per questo stesso motivo, per anni, gli israeliani hanno accettato la richiesta di Arafat di versare la tassa sulla benzina da loro raccolta nei territori occupati su un conto particolare della Banca Leumi personalmente controllato dal leader palestinese anziché intestato al ministero del Tesoro. Si parla di cifre enormi - centinaia di milioni di dollari - che non venivano contabilizzate da nessuno, e dalle quali non c'è dubbio che siano usciti fondi per attività clientelari, e forse anche peggio. L'ironia è che, se si va a guardare da dove viene il denaro usato per comprare bombe ed esplosivi, è molto più probabile che si scopra siano venuti da fondi passati da mani israeliane piuttosto che da fondi europei».