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Il Foglio Rassegna Stampa
11.09.2003 Hamas, Europa e Arafat
in due articoli de Il Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 11 settembre 2003
Pagina: 3
Autore: due giornalisti
Titolo: «due articoli del Foglio»
In terza pagina de Il Foglio abbiamo due articoli, il primo intitolato: "In Israele, finita la speranza, si decide la sorte di Arafat"
Roma. Vi ricordate di Aqaba? Il premier israeliano potrebbe ricordarla come il giorno più nero del suo secondo governo, perché è stato allora, tra George W. Bush e Abu Mazen, che agli israeliani è stata data una speranza di pace infranta, dopo cento giorni di buona volontà nonostante lo stillicidio di morti, a colpi di kamikaze. Ariel Sharon è atteso per le decisioni strategiche, ieri ha accorciato un viaggio in India che non perde per questo la sua importanza, per tornare a Gerusalemme, e affrontarle le decisioni strategiche, che poi si riducono a una, espellere o no Yasser Arafat, tornare almeno a controllare il quartier generale della Muqata, assediandolo e stanando i ricercati per terrorismo che vi abitano tranquillamente, visto che è da lì che si finanziano e si decidono le stragi di israeliani. La discussione notturna dell’inner cabinet parte dalla considerazione che "non si può continuare a far finta di niente, la risposta dev’essere durissima". Per una scelta come la cacciata di Arafat, Sharon vuole essere certo del pieno accordo politico e operativo con l’Amministrazione Bush, un accordo che la strage al caffè Hilel dovrebbe accelerare. La prossima settimana parte per Washington una delegazione guidata dal ministro della Difesa, Shaul Mofaz, e non per caso, che ha come incontro principale quello con il Consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleeza Rice, non con il segretario di Stato, Colin Powell. Mofaz porterà prove a corredo delle sue richieste. E’ forte nel suo governo il fastidio per le garanzie ostentatamente esibite, le assenze altrettanto ostentatamente dimostrate, del responsabile diplomatico americano, uno che la road map l’ha concepita e data per fatta troppo affrettatamente. Il primo ministro israeliano viene ora affrontato, da moderato come ha dimostrato di essere nell’adesione alla road map, dalla destra del paese, del Parlamento, e del governo. Lo sfida Efi Eitam, leader del partito nazionale religioso, "Lo sceicco Yassin è un criminale di guerra, Arafat è il boia di qualsiasi speranza palestinese, ha seppellito Abu Mazen, dobbiamo rimuoverlo". Yaval Steinetz, presidente della commissione Esteri e Difesa della Knesset, uomo del Likud, "il vero capo di Hamas è Arafat, che ha dato asilo ai terroristi".
Tutti ricordano al premier che la scomparsa come una meteora del palestinese che doveva cambiare tutto, colui che godeva del sostegno di Stati Uniti e Israele, ma anche, almeno a parole dei paesi arabi moderati e dell’Unione Europea, deve diventare una lezione già nel presente, mai più fare con leggerezza accordi con i palestinesi, chiunque li sostenga e legittimi dall’esterno. Lo scrive esplicitamente su Yediot Alex Fishman: "E’ vicino alla fine il capitolo nel libro della storia conosciuto come Autorità palestinese, i
due attacchi a Tel Aviv e a Gerusalemme avvicinano Israele all’ora della decisione sul futuro di Arafat". Ancora Yediot, ma molti giornali israeliani, e fonti dall’ufficio del ministro della Difesa, confermano che nel caso della strage di Tsirfin, vicino a Tel Aviv, Hamas si è cortesemente preso la briga di addossarsi una responsabilità che non ha; responsabile è una cellula Tanzim, cioè Fatah, cioè Arafat, di Nablus, ed era un messaggio per il nuovo premier travicello, Abu Ala. Un mese fa quando con i dirigenti di questa cellula si provò a trattare, a Mohammed Dahlan, già ministro degli Interni di
Abu Mazen, gli mandarono a dire che gli avrebbero spezzato braccia e gambe. Lui
capì, adesso deve capire Abu Ala, che infatti si è affrettato ad accettare l’incarico, rinunciando a improbabili sostegni di Stati Uniti e, figuriamoci, di Israele. Sui piani che riguardano il vecchio rais circolano naturalmente
numerose voci, alcune non smentite dalle fonti di intelligence. Un paese africano (la solita Libia?) si è offerto di accoglierlo; anche dall’Egitto sarebbe arrivata la proposta di costruire una "bella villa bianca" sulla costa per Arafat. E’ questione di settimane, se non di giorni.
e il secondo, dal titolo: "In Europa si fanno ancora distinguo su Hamas e dintorni".
Bruxelles. La decisione di iscrivere anche il braccio politico di Hamas nella lista nera del terrorismo, adottata dai Quindici a Riva del Garda la settimana scorsa, non ha goduto di larga eco nella stampa statunitense. Probabilmente perché, sebbene l’iniziativa politica sia stata presa – ed è un dato di fatto – la decisione deve ancora essere formalizzata sul piano tecnico. O forse
perché gli americani conoscono le lunghezze diplomatiche e burocratiche dell’Unione. L’avvio dei provvedimenti contro Hamas rischia infatti di prendere più tempo del previsto. Dopo l’incontro tra i ministri degli Esteri nella cittadina trentina, gli sherpa dei Quindici erano stati incaricati di definire il campo d’applicazione della risoluzione su Hamas. Un gruppo intergovernativo di esperti nazionali dei ministeri degli Interni, della Giustizia e degli Esteri dei quindici Stati membri si è riunito lunedì scorso a Bruxelles, ma il vertice si è concluso con un nulla di fatto. Il gruppo avrebbe dovuto precisare se soltanto il gruppo dirigente dell’organizzazione radicale palestinese sarà iscritto nella lista nera o se lo saranno anche le organizzazioni umanitarie che la finanziano. Ed è proprio su questo
punto che i Quindici si sono incartati. E’ quasi certo, infatti, che i sei esponenti principali di Hamas figureranno nella black list: Sheik Ahmed Yassin, leader di Hamas a Gaza, Abdel Aziz Rantisi, suo dirigente, sempre a Gaza, Khalid Mishaal, capo dell’ufficio politico a Damasco, Imad Khalil Al Alami, membro dell’ufficio politico siriano, Musa Abu Marzouk, aggiunto dell’ufficio politico di Damasco e Usama Hamdan, leader di Hamas in Libano. Non è sicuro, invece, che le associazioni di volontariato che sostengono il Movimento di resistenza islamico vengano incluse nella lista, come vorrebbe
Washington, che a fine agosto ha congelato i beni dei sei dirigenti ma anche delle cinque organizzazioni umanitarie legate a Hamas, quattro delle quali in Europa. Le Ong in causa sono il Comité de Bienfaisance et de Secours aux Palestiniens (Cbsp), basato in Francia, l’Association de Secours aux Palestiniens (Asp) che ha sede in Svizzera, il Palestinian Relief and Development Fund (o Interpal) nel Regno Unito, la Palestinian Association in Austria (Pvoe) e la Sanabil Association for Relief and Development basata in Libano. Secondo fonti diplomatiche europee, l’Ue, che oggi dovrebbe assumere un orientamento definitivo sulla questione, non intende allinearsi del tutto alle decisioni americane, includendo nella lista nera soltanto i capi di Hamas ma non le organizzazioni che lo sostengono. Le posizioni all’interno del Consiglio dei ministri europei variano: Jack Straw, capo della diplomazia
britannica, appoggia il pacchetto completo e con lui l’Olanda. Francia e Belgio restano più prudenti: Dominique de Villepin dichiara di voler sposare la linea dura contro Hamas, ma al tempo stesso ha rilasciato una sibillina dichiarazione sul Comité de Bienfaisance francese: "Al momento non vi sono indicazioni relative a legami del Cbsp con il terrorismo". Anche il ministro irlandese Brian Cowen, prima dell’incontro di Riva del Garda, aveva sottolineato che la decisione europea rischiava di rafforzare il sostegno a Hamas tra la popolazione. Il ministro degli Esteri spagnolo, Ana de Palacio
ha invitato l’Unione a prevedere gli effetti del congelamento dei beni di Hamas
sulle azioni sociali condotte dall’organizzazione: ma la Commissione europea ha ricordato che non vi sarà alcun margine finanziario per rafforzare l’aiuto nei territori palestinesi. "Anzi" – ha concluso la portavoce del commissario britannico alle relazioni esterne Chris Patten – "quali che siano le conseguenze del congelamento dei beni di Hamas e dei gruppi che lo sostengono,
quanto l’Ue elargisce è già di per sé generoso: tocca all’Autorità palestinese
trovare una soluzione".
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