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La Stampa Rassegna Stampa
10.09.2003 Le debolezze del processo avviato con la Road Map
secondo Michael Ledeen, studioso dell'American Enterprise Institute

Testata: La Stampa
Data: 10 settembre 2003
Pagina: 2
Autore: Paolo Mastrolilli
Titolo: «Non ci sarà pace senza Siria, Iran e sauditi»
Riportiamo l'intervista a Michael Ledeen, uno dei consulenti dell'amministrazione statunitense sul Medio Oriente, firmata da Paolo Mastrolilli e pubblicata su La Stampa mercoledì 10 settembre 2003.
Queste nuove violenze non sono una sorpresa: la Road Map proposta dal presidente Bush non può funzionare. Il problema sono gli Stati vicini a Israele che continuano ad appoggiare il terrorismo e non potremo ottenere una vera pace stabile fino a quando non lo avremo risolto». Michael Ledeen, studioso dell'American Enterprise Institute e consulente dell'amministrazione americana, ripete le cose che diceva anche prima della guerra in Iraq, mentre la teoria del «domino», sostenuta da alcuni suoi colleghi neoconservatori, sfugge sempre di più alla realtà dei fatti sul terreno.
Perché la Road Map, secondo lei, non poteva comunque funzionare?
«Perché la minaccia del terrorismo sul terreno non la controllano le parti coinvolte nell'ipotetico negoziato. E' un fenomeno guidato e alimentato dall'Iran, dalla Siria, e dalle fazioni estremiste che si trovano in Arabia Saudita. Sono loro i mandanti che lo finanziano, lo sostengono e indicano gli obiettivi generali. Fino a quando gli ayatollah saranno al potere a Teheran, Assad governerà la Siria, e tra i sauditi nessuno cercherà davvero di bloccare gli estremisti, noi non riusciremo a sconfiggere il terrorismo né in Israele, né in altre parti del Medio Oriente».
Molti analisti danno la colpa del fallimento della Road Map ad Arafat, perché non avrebbe consegnato al primo ministro Abu Mazen il potere necessario ad avere successo, a partire dal controllo totale delle forze di sicurezza. Lei non è d'accordo?
«Certo Arafat non ha aiutato il processo di pace, ma il problema fondamentale non è lui, perché non è lui che possiede i finanziamenti e le armi necessarie a condurre le operazioni terroristiche. Sono gli altri ad avere questi mezzi, ossia la Siria, l'Iran e alcune fazioni dell'Arabia Saudita, con cui noi dobbiamo fare i conti. In questo senso, sono irrilevanti anche il fallimento di Abu Mazen e la nomina del nuovo premier palestinese».
Altri osservatori puntano il dito contro il capo del governo israeliano Sharon, dicendo che la sua campagna di raid mirati contro i capi di Hamas ha favorito il fallimento della tregua.
«Hamas non ha alcun interesse alla pace o alla tenuta della tregua. Lo scontro è la sua unica strategia, e quindi Israele ha l'obbligo di rispondere».
Ma la guerra in Iraq, secondo molti esperti vicini o dentro il Pentagono, non doveva servire proprio ad avviare un positivo effetto domino su tutta la regione, favorendo anche la pace tra israeliani e palestinesi?
«La guerra in Iraq è stata un trionfo militare e rappresenta un primo passo giusto nella strategia contro il terrorismo, ma io ho sempre pensato che avremmo dovuto cominciare dall'Iran».
Sta dicendo che Bush, a poco più di un anno dalle elezioni presidenziali, dovrebbe cominciare una nuova guerra contro gli ayatollah di Teheran?
«Sto dicendo che si poteva aiutare e finanziare un movimento per favorire la rivoluzione democratica dall'interno della società iraniana. E' un'operazione possibile e non credo che solleverebbe troppe obiezioni negli Stati Uniti».
La situazione in Iraq non rischia di complicare la guerra al terrorismo e la crisi tra israeliani e palestinesi, invece di favorire una soluzione?
«Anche noi siamo esseri umani e come tutti gli esseri umani siamo specializzati nel commettere errori. Certo, in Iraq sono stati fatti degli sbagli, ma ci sono anche diversi sviluppi positivi».
Quali sono gli sbagli?
«Io ho un figlio che sta entrando come ufficiale nei marines: quando c'è stato l'ultimo soldato ucciso tra i marines schierati in Iraq? Neanche me lo ricordo, sono mesi. Questo vuol dire che l'approccio alla gestione militare dell'occupazione è stato migliore in alcune zone, e peggiore in altre».
E quali sono gli sviluppi positivi, che potrebbero avere un impatto anche sulla crisi tra israeliani e palestinesi?
«Naturalmente ci sono alcune regioni del Paese molto più tranquille, come quella curda, in cui si sta già costruendo il nuovo modello democratico che vorremmo applicare all'intera regione. Poi, più in generale, le cose non stanno andando troppo bene neanche per i sostenitori del terrorismo, che volevano e vogliono usare l'Iraq come terreno di sfida. A questo punto, ad esempio, gli ayatollah iraniani pensavano di aver già istigato rivolte e proteste massicce tra la popolazione sciita, e invece le zone a sud di Baghdad sono molto più stabili di quelle sunnite a Nord della capitale. E' un segnale che stiamo ottenendo dei risultati tra la popolazione, replicabili forse in altre regioni del Medio Oriente».
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