2002-01-19 Delegittimate, qualcosa resterà...
perchè una "brava persona" può trasformarsi in un Kamikaze portatore di morte
Testata: La Stampa
Data: 19/01/2002
Pagina: 11
Autore: Gilles Paris
Titolo: un articolo
Continua l'opera di delegittimazione delle ragioni di Israele. I grandi giornali (Stampa,Repubblica,Il Sole24ore ecc.) si sono ormai affiancati senza sostanziali differenze alla posizione che da sempre ha caratterizzato fogli come Il Manifesto & C. La Stampa,dopo il paginone di F.Maspero che identifica la politica israeliana nell'Apartheid (vedi nostra critica su IC),prosegue con un'altra paginona (sempre presa da Le Monde), questa volta dedicata a "capire" perchè una "brava persona" può trasformarsi in un Kamikaze portatore di morte. L'articolo di Gilles Paris pubblicato il 19.1 a pagina 11( vi invitiamo a leggerlo qui di seguito) è la storia di come una brava persona,appunto, può trasformarsi in un Kamikaze se l'ambiente in cui vive (leggi la politica di Israele nei confronti dei palestinesi) non gli lascia altra scelta. Non sono l'odio instillato dai libri di testo,dai giornali, dalle radio e televisioni arabo-palestinesi a contribuire a creare le condizioni per le quali dei poveri fanatici sacrificano la propria vita pur di uccidere quanti più israeliani possibile.Non è il terrorismo palestinese, che finanziando la famiglia del possibile attentatore offre un ignobile incentivo a commettere attentati: No, è Israele che trasforma "brave persone" in assassini. L'articolo pubblicato dalla Stampa è una pietra miliare che si aggiunge a tante altre nel tentativo di dare a Israele una immagine colpevolista. Va da sè che le vittime innocenti non sono più i cittadini israeliani ma lo diventano i kamikaze palestinesi.

Dopo averlo letto vi invitiamo a scrivere,si diciamolo, lettere indignate alla Stampa.




(da "La Stampa" del 19/1/2002 Sezione: Esteri Pag. 10)

GERUSALEMME PIOVEVA su Gerusalemme, quel mattino. Era dall´alba che acqua gelata si scaricava sulla città rattrappita dall´arrivo precoce dell´inverno. L´esplosione è risuonata esattamente alle 7.30. Una forte detonazione, seguita come un´eco dal rumore di oggetti metallici in caduta. Quel mercoledì 5 dicembre, c´era stato un attentato suicida al fondo di via Re David, non lontano dalle mura della città vecchia. Sull´asfalto, in mezzo alla strada ancora deserta, giacevano membra dilaniate. Bagnate dalla pioggia, che già lavava via il sangue. Una macchia rossa insudiciava la facciata di un albergo, al primo piano, sotto una finestra forzata dal lancio di un pezzo di corpo umano. La polizia era già arrivata sul posto e urlava al megafono ai rarissimi passanti l´ordine di ritirarsi, prima di definire un perimetro di sicurezza. L´attentato-suicidio aveva fatto una sola vittima, il suo autore. Qualche ora più tardi il braccio militare della Jihad islamica, a Beirut, assicurava, in un comunicato, che l´obiettivo era l´albergo, di fronte al quale il suo militante si era fatto esplodere, dove «si trovavano alcuni dirigenti sionisti». Contro ogni verosimiglianza, la Jihad aggiungeva che «l´eroico martire» aveva «preferito, di fronte a circostanze particolari, farsi saltare in aria davanti all´albergo, causando molte vittime tra i sionisti». Due ministri israeliani, Uzi Landau e Acher Ohanah, incaricati della sicurezza interna e dei culti, si trovavano effettivamente all´interno dell´edificio che Ehud Olmert, il sindaco di Gerusalemme, aveva lasciato pochi attimi prima, dopo aver fatto la sua ginnastica quotidiana. Eppure l´esplosione sembrava aver colto di sorpresa il «martire» nel bel mezzo di una via deserta. Un´esplosione anzitempo, come spesso accade. Molto presto, è circolato un nome: Daud Ali Ashad, del villaggio di Artas, vicino a Betlemme. «Quando abbiamo sentito quel nome, dopo l´attentato, ci siamo chiesti se non ci fosse un errore, perché al villaggio non c´è nessuno con quel nome - racconta Mohamed, uno dei delegati municipali -. Abbiamo passato in rassegna tutta la gente con il nome Daud. Ne abbiamo reperiti quattro. Uno giovanissimo, due anziani e un quarto che poteva andar bene: Daud Ali Ahmad Abu Saui. Degli amici di famiglia sono andati a casa sua. Hanno trovato sua moglie, Um Mohamad. Le hanno chiesto dove fosse suo marito. Lei ha risposto che si era alzato presto, aveva fatto la doccia, aveva pregato e poi era andato al lavoro. In strada intanto i bambini avevano cominciato a cantare: "Daud è morto! Daud è morto!". Allora lei ha capito. Si è messa a urlare: "Se solo avessi avuto qualche dubbio, me lo sarei tenuto stretto, anche coi denti!". Ha pianto, ha gridato, poi si è messa ad aspettare. Quando ha visto che suo marito non rientrava per rompere il digiuno, a metà pomeriggio, si è dovuta arrendere all´evidenza». Artas è un piccolo villaggio aggrappato al pendio pietroso di una valle situata a Sud di Gerusalemme, nella zona autonoma palestinese. La strada che vi conduce costeggia la «piscina di Salomone», un antico serbatoio oggi a secco, poi strapiomba su un monastero cattolico, che sta di fronte al minareto della principale moschea del luogo. Il paesaggio, idillico, è chiuso in lontananza dal muro delle case che costituiscono la colonia israeliana di Efrat. Nulla ricorderebbe l´Intifada nelle vie tranquille di Artas, non fossero, sui pali elettrici o nelle vetrine, i ritratti, già scoloriti, dei «martiri» del villaggio, quasi tutti però uccisi l´un l´altro nel corso di scontri con l´esercito israeliano. Su quei manifesti un volto spicca tra gli altri. E´ quello del bombarolo di via Re David. Un padre di famiglia quarantenne, dai tratti pieni, i capelli e i baffi brizzolati. In posa in una scenografia guerresca grossolana, la fronte cinta di una benda nera, un fucile d´assalto M-16 in mano, davanti a un lenzuolo scuro che porta la scritta «Jihad». Altre tre piccole fotografie sono state aggiunte in basso, scattate nel corso della stessa seduta, in pugno sempre la stessa arma. Il futuro martire guarda fisso l´obiettivo, senza tradire alcun sentimento, alcuna emozione. Un manifesto analogo orna adesso la porta in ferro della sua casa. Il secondo figlio di Daud, Uel, 19 anni, si rifiuta di giudicare l´azione del padre. Non cerca neppure spiegazioni: «In ogni caso, non servirebbero a niente. Mio padre non s´interessava di politica. Non ne parlava mai. Non era vicino a Fatah (il partito di Yasser Arafat, ndt), che è la principale forza politica del villaggio. Non era neppure un musulmano di stretta osservanza. Non mi sarei mai immaginato quello che stava per fare. In ogni caso, ha seguito la strada che aveva scelto e adesso dev´essere in cielo. Che non abbia ucciso nessuno, è la volontà di Dio. Non c´è da dirsi soddisfatti o insoddisfatti. Gente del villaggio mi ha raccontato di averlo visto in sogno: diceva che andava tutto bene e che non era il caso di preoccuparsi per lui». Uel non è l´unico membro della famiglia che l´attentato perpetrato dal padre ha lasciato senza parole. Uno dei suoi zii, Mahmud, un anziano sceicco che ha l´incarico di curare la moschea del villaggio, si tuffa nei ricordi, triturando nervosamente una lunga canna, ma non trova nulla che possa spiegare quell´azione. «Un gatto, quand´è messo all´angolo, può trasformarsi in leone», si limita a mormorare stancamente, prima di evocare per un momento l´occupazione israeliana. A parte questa cappa di piombo permanente, nessuna ragione precisa sembra spiegare perché un giorno Daud Ali Ahmad Abu Saul abbia deciso di raggiungere clandestinamente le file della Jihad e di uscire di casa una mattina senza sperare di ritornarci. Nato a Artas, dove si è sposato più di 25 anni fa, per anni era stato occupato nei cantieri edili. Aveva lavorato un po´ dappertutto in Israele, e poi, a partire dall´Intifada, nei territori palestinesi. A 46 anni, conduceva, fino a mercoledì 5 dicembre, una tranquilla vita di padre e di nonno, mentre la maggior parte di candidati all´attentato-suicidio sono giovani uomini dai 20 ai 25 anni. Daud possedeva anche un po´ di terra a Artas e vicino alle colonie di Gush Ezion, il che lo metteva, in teoria, al riparo dalle preoccupazioni finanziarie. Senza affiliazioni partigiane note, in un villaggio dove la politica, come ogni altro aspetto della vita, si vive sotto gli occhi di tutti, Daud Ali Ahmad Abu Saui non aveva preso parte alla prima Intifada. Non era mai stato arrestato dai soldati israeliani per una qualunque ragione. Non aveva amici particolarmente cari caduti sotto le pallottole israeliane. Solo dei cugini abbastanza lontani e molto più giovani di lui. Artas non era stato, in passato, teatro di un´incursione israeliana particolarmente violenta. L´unico altro martire del villaggio, rivendicato dalla Jihad, era morto a ottobre, in seguito a una sparatoria nel quartiere di Talpiot, a Gerusalemme, ma in circostanze abbastanza torbide: una versione dei fatti faceva riferimento a una lite per questioni finanziarie. Mohamed, un piccoletto secco secco, con i capelli grigi, che organizza le feste del villaggio, conosceva bene Daud, che era stato suo compagno di scuola. Ammette di essere rimasto sorpreso dall´annuncio della sua morte. «Era un uomo come tutti gli altri, sempre pronto a scherzare. Quello che non mi stupisce, è che nessuno abbia mai saputo qualcosa dei suoi legami con la Jihad. Con tutti i collaborazionisti che passano le informazioni agli israeliani, non si fidava. Sapeva benissimo che se una sola persona, a Artas, fosse stata al corrente della cosa, l´avrebbero saputa tutti molto rapidamente. Può essere che la sua situazione finanziaria fosse più difficile di quanto non si credesse. Poco lavoro e nessun modo di far fruttare le sue terre a causa dell´accerchiamento. Questo elemento magari ha giocato. Forse si è detto che, lui morto, la Jihad si sarebbe presa cura della sua famiglia. Si sa che quei gruppi hanno quattrini. Forse questo ha permesso loro di lavargli più facilmente il cervello». Una semplice ipotesi. D´altra parte, a posteriori, Mohamed si ricorda di aver sentito Daud annunciare una sua prossima partenza per l´estero. «Diceva, a chi voleva ascoltarlo, che sarebbe partito dopo la fine del ramadan. Che aveva concluso un contratto di lavoro con una società saudita e avrebbe lavorato laggiù, nell´edilizia. Intendeva forse dire, dato che i luoghi santi musulmani sono alla Mecca, che andava a ricongiungersi con Dio? In ogni caso, conosco gente che gli ha chiesto come avesse fatto, dato che anche loro erano interessati. Un tempo c´erano molti lavoratori che emigravano in Arabia saudita, ma adesso con l´Intifada non è più possibile». Daud è morto con il suo mistero, senza lasciare ufficialmente dietro di sé uno di quei testamenti nei quali i candidati al suicidio di solito spiegano come hanno scelto il terrorismo in nome della lotta nazionale. La sua parabola di palestinese normale votato all´autodistruzione illustra la spaventosa banalizzazione di una violenza, un tempo eccezionale, oggi assestata e subìta da due campi senza più speranze. Una violenza che sfugge a qualunque monopolio, diventata il solo linguaggio parlato e capito in Israele come nei territori palestinesi occupati e autonomi, a spese di popolazioni civili prese in trappola. «Quando ho saputo che nessun israeliano era stato ucciso in quell´attentato, mi sono subito detto che era un dono di Dio. Ci fossero stati nuovi morti, quattro giorni dopo l´attentato di Gerusalemme e tre giorni dopo quello di Haifa, posso garantirvi che Artas sarebbe stata rasa al suolo - continua Mohamed -. Qui non abbiamo nessuno che ci difenda ed è impossibile fuggire. Non sono l´unico a pensarlo. Non credo che sia con questo genere di azioni che arriveremo ad avere il nostro Stato. Se così fosse, sarei stato il primo a farmi saltare in aria. Dalla morte di Daud, tutti hanno cambiato atteggiamento con la sua famiglia. Vorremmo darle una mano, ma allo stesso tempo ciascuno prende un po´ di distanza per non dare l´impressione che questo aiuto sia frutto di un accordo preso prima dell´attentato. Per non dare l´impressione di essere stati al corrente della cosa. Perché il proprio gesto non venga interpretato male. Sono molto, molto triste per Daud. Sono convinto che abbia dovuto ragionarci su parecchio, prima di decidersi. Ma dopo che aveva preso contatti con i capi, è diventato troppo tardi per lui. Conosceva la gente della Jihad. Rappresentava un rischio per loro. Non poteva più tirarsi indietro. Sono sicuro però che ha dovuto esitare molto a lungo. Fino all´ultimo. Forse è per questo che l´attentato è fallito». Quando la moglie di Daud si è convinta della sua scomparsa, la famiglia ha organizzato il lutto, in una sala municipale. Per tre giorni, secondo l´usanza, i parenti hanno ricevuto le condoglianze dei vicini e degli amici del villaggio. «Alla fine di quel periodo - racconta la sorella di Daud, Rasmia - ancora non avevamo notizie del suo corpo, conservato dagli israeliani per l´inchiesta. Non sapevamo quando ci sarebbe stato restituito. Allora abbiamo deciso di fermare tutto. Da quel momento siamo in contatto con l´Autorità palestinese e le organizzazioni per la difesa dei diritti dell´uomo, che si occupano di questo genere di problemi. Ma continuiamo a non sapere niente». All´inizio del mese di gennaio, i resti del bombarolo palestinese non erano ancora stati sepolti. Copyright Le Monde


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