25/2/02 Sfida alla Spinelli: Lo dimostri!
Il concetto è chiaro: Sharon è egualemente complice di Arafat se il futuro da quelle parti si presenta buio.
Testata: La Stampa
Data: 24/02/2002
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: Gerusalemme delenda est
Sotto il beneaugurante titolo "Gerusalemme delenda est" Barbara Spinelli ritorna sulla Stampa del 24.2.2002 con un editoriale in prima pagina al tema che ormai le permette di svolgere al meglio il mestiere di profeta. Poco importa l'uso che fa delle virgolette. Il concetto è chiaro: Sharon è egualemente complice di Arafat se il futuro da quelle parti si presenta buio. Non conta nulla per Spinelli che Arafat sia lì da più di trent'anni, despota inamovibile (e guai a chi prova a dissentire) anche se si presenta sempre come "il leader eletto dal suo popolo". Sharon, eletto in libere elezioni democratiche, è uguale a Arafat. Sono tutti e due stupidi. Lasciamo però il piacere della lettura integrale ai nostri lettori.
Da parte nostra vogliamo sottolineare un passo, solo quello, perchè crediamo sia esemplare per dimostrare la serietà della giornalista.
Spinelli scrive verso la fine " Secondo Uzi Landau, ministro israeliano della sicurezza, bisognerebbe agire verso i palestinesi come Saddam contro i curdi: sterminandoli".
Chiediamo ai nostri lettori di inondare La Stampa di e-mail anche solo per chiedere che Spinelli riveli dove mai ha letto una dichiarazione simile. Che gliel'abbia rivelato Arafat non vale. Vogliamo sapere su quale documento attendibile l'ha letta. Ce lo dica. Ne abbiamo il diritto.

Gerusalemme «delenda est»
di Barbara Spinelli
24 febbraio 2002

In terra di Palestina come in Israele, c’è qualcuno che ha dosi sufficienti di forza, testardaggine e stupidità da dire ogni giorno a se stesso: Gerusalemme delenda est, proprio come gli antichi romani che sognavano la distruzione di Cartagine e tanto la fantasticarono che infine l’ebbero. L’empietà del sogno conferisce immensa forza a Sharon, che ha costruito tutta la propria carriera su una visione cupa, catastrofica, dei rapporti con gli arabi. È all'origine della testardaggine di Arafat, e della sua attitudine a lottare per uno Stato palestinese senza mai cogliere le occasioni che gli vengono offerte. Una notevole inclinazione alla stupidità, infine, accomuna i due personaggi. Una stupidità singolare, che comprende al tempo stesso sfacciataggine, furbizia politicante, narcisismo, vocazione al ricatto violento. Ambedue hanno un rapporto labile, se non inesistente, con la realtà e i momenti propizi offerti dal fallimento delle convinzioni dogmatiche. Ambedue intrattengono con la politica un rapporto squilibrato, dunque irresponsabile: l’uno come l’altro hanno costruito la propria forza in esilio o comunque lontano dalla politica quotidiana; l’uno come l’altro posseggono una mentalità di opposizione, di matrice terrorista o militare. Sono esperti nell’arte di dividere il fronte avversario, non di riportarlo a ragione. Cercano di imporsi con il metodo della persuasione forzosa, non della dissuasione. Ambedue, infine, credono di aver appreso qualcosa dall’11 settembre ma non hanno imparato alcunché. La banalizzazione del terrorismo, e in particolare del terrorismo suicida, rischia di vincere l’ultima battaglia se l’arma per fronteggiarlo è solo quella della rappresaglia. Se i contendenti immaginano di aver molto tempo davanti a sé, e di poter usare il terrorismo proprio e altrui come strumento per un fine encomiabile. Il muro che tanti bramano, fra Israele e Palestina, dovrebbe innanzitutto separare i due apprendisti stregoni: Ariel Sharon e Yasser Arafat. Nessuno dei due è stato fedele alla parola che aveva dato con energia. Sharon aveva promesso sicurezza e ha finito col diffondere paura, rovina. Arafat aveva promesso uno Stato autonomo - capace di darsi le leggi da solo - e ha creato una Palestina ancor più colonizzata e disperata.

L’apprendista stregone pensa di controllare la bestia irrazionale che è nell’uomo, e che è ingrediente di tutte le guerre di trincea. La bestia che si nutre di distruzione, di morte: gli europei l’hanno conosciuta nella prima guerra mondiale, quando per infinitesimali lembi di terra cadevano migliaia di uomini, inutilmente. La bestia che dà un colore politico al messianesimo, etnico o religioso, presente oggi nell’Islam ma anche nell’ebraismo. Che spinge tanti israeliani a insediarsi proprio lì dove scorre più sangue, lì dove non converrebbe per alcun motivo costruire case, famiglie, destini: nelle colonie edificate in territorio occupato di Cisgiordania e a Gaza. È un messianesimo che si mescola perversamente con calcoli economici, perché traslocare nelle colonie è vantaggioso, e acquistarvi case diventa una concreta possibilità per chi arriva in Israele senza ricchezze. Debellare simile bestia non implica solo una lotta israeliana ai propri integralismi, ma una politica edilizia terra terra: una politica del quotidiano estranea a Sharon il rivoluzionario. Ed è la bestia che spinge tanti palestinesi a vedere sempre altrove e mai in se stessi la causa di una paralisi ormai antica.

Abbiamo visto come l’odierna guerra somigli al nostro ‘14-’18, piuttosto che all’offensiva contro il crimine nazionalsocialista. Le assomiglia per la sua natura assurda, appunto istupidente. Le somiglia per il valore preminente che viene dato al trionfo dell’etnia sull’esecrata etnia che combatte al di là della barricata. Molti parlano di pax americana in Medio Oriente ma in realtà è una pax europea quella di cui abbisognano i contendenti. Una pace che gli abitanti del nostro continente hanno appreso con ritardo - dopo la seconda guerra mondiale - e che ha messo fine, almeno nella parte occidentale, a una moltitudine di irredentismi etnici. Da un giorno all’altro ­ tale fu il senso della Comunità sorta nel ‘57 ­ gli europei decisero che nessuno avrebbe più reclamato l’equanime restituzione di territori. Gli Stati si sconnettevano dall’idea etnico-linguistica della nazione, e i confini vennero accettati per quelli che erano: non necessariamente giusti, ma convenienti e di certo pacifici.
Non senza ragione, l’America di Bush ha polemizzato fin da settembre contro chi faceva risalire l’assalto a Manhattan all’occupazione israeliana dei territori: Bin Laden non doveva uscire dal conflitto nella qualità di difensore di una giusta causa. Ma oggi è Bush stesso a sancire il nesso fra lui e il Medio Oriente, consentendo a Sharon di considerare la lotta contro Arafat e l’Amministrazione palestinese come parte della vasta lotta internazionale contro il terrore. In realtà il Premier israeliano ha altro in mente: concentrando l’offensiva sulla persona di Arafat, vuol profittare della guerra civile che divide la Palestina - un’autentica guerra dentro la guerra - e fabbricare con le proprie mani un nuovo, meno oscillante, più realistico interlocutore. Un disegno che si potrebbe comprendere, se avesse dato risultati: in realtà l’imprigionamento di Arafat ha accresciuto la popolarità di quest’ultimo anziché frantumarla.

Come spesso accade, e come accadde nel ‘14-’18, sono spesso gli scrittori a capire l’insensatezza di certi conflitti, più degli strateghi e politicanti. Nella Grande Guerra furono Proust, Céline. Nella guerra che va sotto il nome di seconda Intifada sono David Grossman, Avraham Yehoshua, Doron Rosenblum. La voce di questi ultimi si è ulti- mamente risvegliata, grazie anche ai duecento e più riservisti che hanno deciso di rifiutare il servizio nei territori, e la loro attenzione si concentra sulla propensione di Sharon alla dismisura, al catastrofismo, all'obnubilamento della realtà, all’incapacità di imparare dalle sconfitte. Nessuno di costoro ha fiducia in Arafat, e Yehoshua critica anche i riservisti disertori: perché saranno i coloni, un giorno, ad ac- campare il diritto all’obiezione di coscienza e a rifiutarsi di sloggiare. Ma li unisce lo sforzo di capire il perché delle tante opportunità mancate dai palestinesi, e li accomuna un nuovo interesse alla mediazione europea, complementare all’americana.

Vero è che Arafat perse nel 2000 un’occasione preziosa, quando rifiutò l’accordo di Camp David offerto da Barak e Clinton, e che mai Israele aveva ceduto tanto sulla restituzione, le colonie, addirittura lo statuto di Gerusalemme. Ma altrettanto vero è che i palestinesi dopo decenni di occupazione non sembrano più credere nelle offerte, quali esse siano. Le colonie sono aumentate enormemente, soprattutto sotto Barak. Nessun accordo interinale è stato rispettato, di quelli previsti dall’accordo di Oslo. Come credere in chi offre tutto intero il proprio corpo, quando neppure sa dare la mano?

Un grande passo avanti si fece a Taba, nel gennaio 2001, quando non furono solo gli israeliani a far cadere dall’alto un piano ma anche i palestinesi, nella qualità di protagonisti e non di sudditi degli occupanti. È significativo che il mediatore, allora, non fosse un americano ma un europeo: l’inviato speciale dell’Unione, ambasciatore Miguel Moratinos. È la conferma che l’Europa può molto, quando Washington è latitante. Può imporre una pax europea sul modello della nostra Unione. Una pace che erige a tabù la messa in questione delle frontiere di pace, e che capisce i bisogni di sicurezza di tutti ma non tollera né le apocalissi di cui si nutre Sharon - stando a Doron Rosenblum - né gli Stati etnici invocati dai suoi ministri. Secondo Uzi Landau, ministro israeliano della sicurezza, bisognerebbe agire verso i Palestinesi come Saddam contro i curdi: sterminandoli. È una prospettiva che l’Europa, proprio perché l’ha conosciuta, deve poter fermare. Con l’aiuto degli scrittori, dei soldati, della stampa libera d’Israele. E operando affinché anche in Palestina nascano un giorno scrittori, soldati refusnik, e una stampa libera che non scenda ogni giorno in trincea, proclamando che Gerusalemme (assieme a Israele, e perfino alla Palestina) delenda est.

I lettori che volessero esprimere le loro impressioni su tale argomento possono scrivere al La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una mail pronta per essere compilata e spedita.

lettere@lastampa.it