Riprendiamo da LIBERO di oggi, 27/04/2025, a pag. 18, con il titolo "Abu Mazen delira: «A Gerusalemme non vi sono templi ebraici»", la cronaca di Amedeo Ardenza.
Giorni fa aveva chiamato «figli di cane» i dirigenti di Hamas, accusandoli di aver inflitto gravi danni alla causa palestinese. Qualcuno, ma non gli israeliani, avevano letto nella sfuriata televisiva del presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas un cambio di rotta, un possibile avvicinamento a Israele dopo mesi di sostanziale neutralità seguita ai massacri commessi da Hamas il 7 ottobre 2023.
Ma dopo il colpo al cerchio Abbas, presidente palestinese dal 2005, ne ha dato uno anche alla botte. Così, rivolgendosi mercoledì al comitato centrale dell’Olp, di cui è anche presidente (ma dal 2004), ha attaccato Israele. Benché ancora in guerra con Hamas, oggi lo Stato ebraico è più forte per aver bastonato Hezbollah e festeggiato il crollo del regime siriano di Bashar Assad. Abbas invece è sempre più debole: è anziano, compirà 90 anni a novembre, è male in arnese perché grande fumatore e non ha alcuna legittimazione popolare essendo stato eletto presidente dell’Autorità palestinese per un mandato di quattro anni mai rinnovato.
Poiché il presente è contro di lui, Abbas ha puntato il dito contro il passato di Israele. Non è vero, ha affermato, che i templi più antichi del popolo ebraico sono nell’Israele moderno: le vere vestigia ebraiche si troverebbero in Yemen.
Israele «sta cercando di cambiare lo status storico e legale dei luoghi santi islamici e cristiani, in particolare la santa moschea di Al-Aqsa», ha affermato Abu Mazen, questo il suo nomedi battaglia, ripreso dal Jerusalem Post. La Moschea di Al-Aqsa «è l'obiettivo della trama più orribile dell’occupazione. Hanno diffuso incitamento per la sua distruzione e la costruzione di un tempio ebraico al suo posto».
Balle anni ‘70 alla quale non crede più nessuno neppure in seno all’Olp e forse un goffo tentativo di non apparire filoisraeliano. A corto di cartucce, Abu Mazen va dunque a rovistare in un archivio propagandistico a lui molto caro: quello del revisionismo storico. Nel lontano 1982 l’allora 47enne Mahmoud Abbas discusse una tesi di dottorato all’Università Patrice Lumumba di Mosca, oggi Università russa dell’amicizia tra i popoli, sostenendo che lo sterminio nazista degli ebrei «è un’enorme bugia».
Il presunto piano sionista per cambiare lo status della moschea Al-Aqsa è una frottola smentita dallo status quo attuale secondo cui, benché la cupola sacra all’Islam sia stata costruita sopra alle rovine del Tempio di Gerusalemme, oggi l’accesso a quell’area è vietato agli ebrei. E quando qualche ministro israeliano nazionalista come Itamar Ben-Gvir ha forzato la mano portando alcuni ebrei a pregare vicino ad Al-Aqsa, tutto il rabbinato d’Israele ha condannato la mossa denunciando la violazione dell’accordo non scritto.
Ma ad Abbas tutto questo non interessa: davanti alle difficoltà di Hamas messa nell’angolo da Israele, il presidente laico senza eredi politici cerca a fine carriera di accreditarsi come leader islamico: «Nel nobile Corano, e credo anche in altri libri sacri», ha spiegato, «si afferma che il Primo e il Secondo Tempio si trovavano nello Yemen. E chi ama leggere di religione può verificarlo. Vi assicuro che gran parte della storia è stata falsificata. Chi legge il Corano lo sa».
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