Israele, perché continua la guerra
Analisi di Ugo Volli
Testata: Shalom
Data: 19/04/2025
Pagina: 1
Autore: Ugo Volli
Titolo: Perché continua la guerra

Riprendiamo da SHALOM online, l'analisi di Ugo Volli dal titolo "Perché continua la guerra".

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Ugo Volli

A Gaza la guerra è ricominciata da un mese. Non era affatto intenzione di Israele riprenderla, così come non è Israele che l'ha iniziata, nonostante il coro dei media occidentali di sinistra continui ad addossare la colpa a Netanyahu

Il quadro strategico
È passato ormai più di un anno e mezzo, esattamente 80 settimane dal 7 ottobre – e la guerra prosegue, con tutto il suo carico di morti, di dolori, di preoccupazioni. Bisogna essere chiari su questa prosecuzione. Esattamente come Israele non ha voluto la guerra, così non vuole la sua prosecuzione. Non desidera che i suoi figli siano uccisi e neppure che debbano combattere per uccidere. La guerra prosegue perché Hamas, Herzbollah, gli Houti, soprattutto l’Iran non vogliono riconoscere la loro sconfitta e pensano ancora di poter ottenere il loro obiettivo, che è dichiaratamente la distruzione di Israele e la strage degli ebrei, continuando a mettere alla prova la resistenza morale e politica dello Stato ebraico e sfruttando la radicalità dell’opposizione interna. Per farlo usano innanzitutto il loro potere di vita e di morte sugli israeliani che hanno rapito il 7 ottobre per ricattare l’opinione pubblica di Israele. Si avvalgono poi dell’appoggio irresponsabile delle forze politiche e dei media che in tutto il mondo hanno capito che Israele è l’avamposto delle libertà occidentali e purtroppo proprio per questa ragione stanno dalla parte di chi lo assale: non solo la Cina, la Russia, gli estremisti islamici, ma anche le sinistre del mondo occidentale, disposte non da oggi a fare patti col diavolo in odio allo “stato borghese” e al “capitalismo”. Questo è il quadro strategico da tener presente. A chi chiede la pace bisogna rispondere che essa è possibile anche domani a patto che i terroristi di Hamas si arrendano, consegnino le armi, liberino i rapiti e abbandonino Gaza; e quelli iraniani che abbandonino il programma di armamento nucleare e smettano di fare la guerra a Israele. Ma per Hamas le armi e il potere a Gaza sono la “linea rossa” oltre cui non sono disposti a cedere, come per l’Iran è il programma atomico.

Gaza
Le operazioni militari a Gaza sono riprese da un mese con intensità crescente. Con il nuovo capo di stato maggiore l’esercito israeliano ha abbandonato la tattica “mordi e fuggi” e tiene ormai il 40% del territorio distruggendo armi e eliminando terroristi e bloccando i loro rifornimenti ufficiali (impropriamente chiamati “aiuti alla popolazione”). Un rapporto del “Wall Street Journal” dice che Hamas sia in difficoltà economica, qua e là sono scoppiate delle piccole manifestazioni di protesta, sono stati uccisi numerosi dirigenti terroristi. Ma le armi a Hamas sembrano non mancare, nessuno a Gaza ha il coraggio di rivelare dove sono tenuti i rapiti. E peggio: fonti militari parlano ora di 40.000 persone inquadrate nelle formazioni di Hamas. Erano altrettanti o anche meno il 7 ottobre, nel frattempo ne sono stati eliminati 20.000 e molti altri feriti. Ma le forze sono ancora quelle. Ciò significa che c’è ancora disponibilità di reclutamento, cioè che gli abitanti di Gaza sono favorevoli ad Hamas e disposti a morire per la sua causa. È un sintomo molto grave: sembra che Hamas non sia affatto finito, che possa riprendere il terrorismo come minaccia spesso, appena cessasse le pressione militare israeliana. Nel frattempo è uscita oggi la cifra di 50.000 emigrati dalla Striscia in questi mesi. È un numero consistente, ma certamente non abbastanza per svuotare la vasca della popolazione in cui i terroristi si muovono “come pesci nell’acqua”, secondo quel che diceva Mao. La strada per domare Gaza è ancora lunga.

Iran
Se Hezbollah è più o meno in condizioni di impotenza, la Siria è ormai fuori dal gioco (e si è fatto sapere che c’è stato un incontro negli Emirati fra delegati del regime siriano e di Israele “per risolvere le controversie”), e se gli Houti sono sotto tiro degli americani, la testa della piovra è sempre l’Iran, che continua a spedire soldi e armi come gli riesce a tutti i nemici di Israele, ma soprattutto lavora alacremente al programma di armamento atomico che lo renderebbe, secondo il calcolo degli ayatollah, immune alle reazioni difensive dei nemici che attacca. Qualche giorno fa è uscita la notizia di un piccolo sisma anomalo con epicentro nel sud dell’Iran, che potrebbe essere in realtà un esperimento di esplosione atomica. Nel frattempo sono iniziate sabato scorso le trattative in Oman fra diplomatici americani e iraniani, che purtroppo hanno partorito solo un rinvio a sabato prossimo, secondo la solita tattica iraniana per comprare tempo. E ci sono state dichiarazioni piuttosto inquietanti dell’inviato di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, sulla possibilità di stabilire limiti invece che distruggere il sistema di produzione nucleare di Teheran, che sembravano tratte dalla retorica di Obama. Una “rivelazione” del New York Times uscita ieri afferma che Netanyahu è andato la settimana scorsa a Washington per ottenere l’assenso di Trump a una azione militare a maggio per distruggere il potenziale atomico dell’Iran: o un bombardamento seguito dall’azione a terra di gruppi speciali, o un bombardamento prolungato per almeno una settimana. Trump avrebbe detto di no, per permettere le trattative e rimandato la decisione. In una dichiarazione Netanyahu non ha preso posizione sull’indiscrezione, ribadendo solo il suo impegno a impedire all’Iran l’armamento nucleare. Ma molti commentatori pensano che questo confronto non sia avvenuto come racconta il NYT e che queste “rivelazioni” siano un gioco per squalificare Trump o Netanyahu o entrambi.

Il problema dello Shin Bet
Questa ambiguità nell’uso dei mezzi giornalistici ci rimanda a una catena di scandali che sono esplosi nelle ultime settimane in Israele e che hanno molto occupato le pagine dei giornali. Il contesto è la decisione che ha preso all’unanimità il governo israeliano di licenziare Ronen Bar, il capo dei servizi di sicurezza interni (Shin Bet) e il solo dei grandi responsabili tecnici del fallimento del 7 ottobre (probabilmente il più colpevole fra loro) a non essersi dimesso. Gli americani hanno dichiarato di non voler collaborare con un servizio in cui il governo israeliano non aveva fiducia. Bar ha rifiutato di andarsene, spalleggiato dal procuratore generale Gali Baharav-Miara, che peraltro è sua carissima amica di famiglia. Il pretesto è che sta indagando su fughe di notizie e azioni in favore del Qatar nell’ufficio di Netanyahu. Su questa storia ci sono stati degli arresti voluti dallo Shin Bet, ma alla fine gli interessati sono stati messi agli arresti domiciliari ed è probabile che non ne esca niente. Le opposizioni hanno presentato ricorsi alla Corte Suprema contro il licenziamento, e la Corte ha bloccato la decisione del governo, sebbene il possibile licenziamento governativo del capo dello Shin Bet sia esplicitamente previsto nella legge istitutiva dell’agenzia, ma non ha neanche deciso di proibirlo: il tema è sospeso, nonostante l’evidente urgenza. Nel frattempo è uscito sulla stampa che Bar aveva ordinato un’inchiesta su pretese infiltrazioni di estrema destra nella polizia e che questa inchiesta era stata ritenuta infondata. Ma allora è partita una seconda inchiesta sul funzionario dello Shin Bet che aveva rivelato alla stampa il fallimento della prima inchiesta: arrestato e tenuto in condizioni molto dure è stato rilasciato anche lui da un giudice agli arresti domiciliari. Vi sono stati poi altri episodi di rivelazione di segreti interni allo Shin Bet. Insomma si tratta di un’agenzia indispensabile nel controllo del terrorismo, che però ormai sembra fortemente impegnata nella politica interna israeliana e divorata da faide interne incontrollabili. Da riformare subito, per il bene del Paese.

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