Riprendiamo dal sito www.israele.net - diretto da Marco Paganoni - l'editoriale di Carmen Dal Monte dal titolo "Come Gaza ha sequestrato la sinistra occidentale. L’ombra lunga della Palestina su una sinistra che ha smesso di pensare".
Oggi, per gran parte della sinistra occidentale sembra esistere una sola battaglia che meriti davvero visibilità: la Palestina. Ma non la Palestina come realtà storica, sociale o geopolitica, bensì come simbolo assoluto, totemico, della sofferenza. Gaza è diventata il paradigma del giusto oppresso. Tutto il resto è rumore di fondo.
Eppure, mentre si grida “Free Palestine”, altre voci vengono silenziate. Le donne musulmane che denunciano violenze sistemiche. Gli omosessuali che fuggono da regimi islamici per non essere uccisi. I dissidenti, i convertiti, i lavoratori sfruttati nei paesi arabi. Per loro, nei cortei, non c’è posto. Né spazio sui cartelli. Sono una dissonanza. Un inciampo.
E non è solo questione di Hamas. Oggi, il movimento pro-palestinese fa parte di un blocco più vasto, ideologico e geopolitico, in cui si intrecciano Stati arabi autoritari, monarchie teocratiche, media pan-islamici, università finanziate da regimi repressivi. Gaza e diventata la bandiera di poteri che reprimono al proprio interno, ma sventolano la causa palestinese per guadagnare legittimità all’esterno.
E la sinistra europea? Ha smesso di analizzare. Ha smesso di leggere. E soprattutto ha smesso di distinguere. Pressata dal discorso anglosassone, ha abbandonato il metodo marxista, quello che studia i rapporti di forza, le contraddizioni materiali, la composizione di classe, per adottare un vocabolario moralistico, americanizzato, dove tutto si divide in dominante e dominato, vittima e privilegio, bianco e non bianco.
In questo schema rigido, la Palestina diventa il simbolo perfetto. Tutto il resto svanisce. Ma diciamolo: Gaza non è centrale. Non lo è mai stata. Lo è diventata solo per chi ha sostituito l’analisi con il rito, il conflitto sociale con una liturgia identitaria.
Il problema non è Gaza, ma l’ossessione che le è cresciuta intorno. Un’ossessione che ha colonizzato l’immaginario della sinistra, soffocando altri fronti: lotte femminili, mobilitazioni operaie, richieste di libertà religiosa o laica, diritti civili. Gaza è diventata il feticcio perfetto per chi non vuole più leggere il mondo, ma solo farne teatro.
E non importa se a portare quella bandiera siano Stati che imprigionano giornalisti, lapidano donne, criminalizzano l’omosessualità. Non importa se quegli stessi regimi finanziano la repressione delle rivolte popolari in Iran, Siria, Sudan. La coerenza ha smesso di contare. Conta l’identità simbolica. E l’allineamento.
E non si tratta solo di collettivi radicali o universitari. Anche amministratori pubblici moderati, perfettamente inseriti nel sistema democratico, alimentano questa selezione. A Bologna, il sindaco Matteo Lepore ha fatto esporre la bandiera palestinese sulla facciata del Comune, in solidarietà con Gaza. Un gesto forte, simbolico, capace di orientare l’immaginario civico. Ma non risulta che quel Comune abbia mai preso posizione pubblica per le donne iraniane, i dissidenti turchi, le vittime del regime siriano o i migranti schiavizzati nei Paesi del Golfo.
In quel contesto, la sofferenza palestinese diventa l’unica degna di visibilità pubblica. Le altre più complesse, meno codificabili, restano invisibili. Che tutto ciò avvenga proprio a Bologna, città simbolo della sinistra italiana, democratica, antifascista, storicamente legata al pensiero critico, rende il gesto ancora più emblematico. Come se quella storia, la capacità di discernere, di leggere le contraddizioni, di evitare i riflessi automatici fosse stata cancellata. O peggio: rovesciata.
La sinistra che un tempo avrebbe smascherato questa dinamica, oggi la asseconda. Non per tradimento, ma per smarrimento. Ha scambiato l’analisi con l’indignazione. La strategia con il posizionamento morale. Ha dimenticato che il marxismo non è una religione dell’innocenza, ma uno strumento per comprendere e trasformare i rapporti di dominio: tutti. Anche quelli esercitati in nome dell’anti-sionismo.
Così, mentre si manifesta per Gaza, si tace su Teheran. Su Doha. Su Riad. Si ignorano le vere rivolte, quelle che vengono dal basso, da subalterni reali, che non rientrano nei canoni estetici del progressismo occidentale. Si dimentica che i popoli arabi non sono soltanto vittime da rappresentare, ma soggetti politici, con idee e conflitti reali, spesso contro i loro stessi governi, religioni, movimenti armati.
La sinistra che fa dell’occupazione israeliana il prisma unico della giustizia ha perso contatto con la realtà. Perché nessun conflitto ha diritto alla centralità ideologica. E ogni silenzio selettivo è, alla fine, una scelta politica.
Qui non si tratta di Gaza. E scomparso l’Impero romano, figuriamoci Gaza. Si tratta di salvarci dalla cecità analitica. Dalla paura del dissenso. Dalla rinuncia al pensiero. La dialettica non è un hashtag. È un processo reale fatto di contraddizioni, di forze che si scontrano, di popoli che agiscono, spesso al di fuori del nostro campo visivo.
Mentre ci accapigliamo su chi sia più vittima, la realtà si muove: regimi si consolidano, movimenti si radicalizzano, rivoluzioni svaniscono nel silenzio.
La sinistra che ha smesso di leggere la società non parla più a nessuno. E la società, semplicemente, smette di ascoltarla.
(Da: Times of Israel, 22.3.25)
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