Il lato oscuro della Resistenza
Commento di Marco Patricelli
Testata: Libero
Data: 15/04/2025
Pagina: 11
Autore: Marco Patricelli
Titolo: La Liberazione che la sinistra non racconta

Riprendiamo da LIBERO di oggi, 15/04/2025, a pag. 11 con il titolo "La Liberazione che la sinistra non racconta", il commento di Marco Patricelli.

Marco Patricelli
Marco Patricelli

I primi ad opporre resistenza ai tedeschi furono i militari italiani. La resistenza in grigioverde è un episodio volutamente dimenticato nella storia scritta dall'ANPI, dove il ruolo di resistenti è monopolizzato solo dai partigiani, possibilmente solo quelli comunisti.

C’è un altro 25 aprile, ben diverso dalla narrazione della mitizzata Resistenza. Libero ha pertanto scelto di accompagnare i lettori all’appuntamento con la Liberazione raccontando fatti e persone che la sinistra e la vulgata partigiana hanno a lungo sottaciuto per interessi politici.
■ La Resistenza non è un canto gregoriano e tutti devono per forza intonarsi alla stessa altezza, ma una polifonia in cui le note devono essere consonanti anche in senso verticale. Nell’unisono piatto della vulgata resistenziale ogni nota fuori dalla monodia è invece percepita come estranea e dissonante, pur essendo in partitura secondo le inflessibili regole del contrappunto fissate dalla storia, che non vive né prospera sulle omissioni e sulle manipolazioni ideologiche.
Dopo 80 anni di messa cantata, rivedere la narrazione in maniera complementare e completante non suona affatto come un’eresia. La Resistenza non è infatti un monolite sotto presidio ferreo di autoproclamati gendarmi della memoria, intangibile e inscalfibile, bensì un prisma che riflette luci e ombre del periodo 1943-45, il più lacerante della storia italiana perché insanguinato dalla guerra civile. La Resistenza non è affare di qualcuno né monopolio di nessuno, ma patrimonio di tutti, e occorre ripensare in profondità la scelta compiacente di una certa politica, miope o interessata, di lasciare a certe correnti di pensiero monotematico di scorrere liberamente nel fiume della storia, intorbidandone le acque con aggiustamenti e rimodulazioni. E, soprattutto, postulati indiscutibili e manicheismi rigidi. Non c’è stata una sola Resistenza, ma ce ne sono state tante, non sempre sovrapponibili, con forme, energie e finalità diverse.

LO SFASCIO POST 8 SETTEMBRE

Libero ha scelto pertanto di accompagnare i lettori all’appuntamento del 25 aprile riportando l’attenzione su aspetti della Resistenza sottaciuti, tenuti in ombra o appena sfiorati dalla narrazione della Liberazione. A partire dal fatto che senza lo sfascio del 9 settembre 1943 e l’implosione di uno Stato che aveva firmato la resa incondizionata con due milioni e mezzo di italiani in uniforme, racconteremmo un’altra storia, probabilmente solo quella della resistenza ai tedeschi invasori, per ricacciarli al di là delle Alpi.
La prima forma di reazione, a caldo, fu antitedesca e dunque nazionale, non politica. La frattura con la dittatura si era già consumata il 25 luglio, in maniera pressoché indolore: i fascisti erano diventati antifascisti allo stesso modo in cui la Polizia aveva sostituito i fascetti al bavero con le stellette e la Milizia si era messa come un sol uomo agli ordini del Maresciallo Pietro Badoglio. A neppure un ex o post fascista era venuto in mente di liberare il Duce, neanche ai teoricamente fedelissimi della Divisione M addestrati e armati dai tedeschi. Dal fascio allo sfascio, ai fili recisi della catena di comando per la vergognosa fuga di Pescara, che mette a nudo inconsistenza e incapacità della classe dirigente. Un solo generale, Ferrante Vincenzo Gonzaga del Vodice, muore l’8 settembre 1943, anche se per via documentale non sappiamo se per suicidio, in combattimento, o assassinato dai tedeschi ai quali si oppose in virtù del suo nome e del suo onore militare. Non fu questa resistenza?
E come definire i Granatieri di Sardegna del generale Gioachino Solinas? Ai tedeschi che gli ponevano un ultimatum gliene diede uno lui prima di farli prendere a cannonate dai suoi militari che, adeguatamente guidati, combatterono subito e bene. Ma Solinas, che fece il suo dovere di soldato, non si ricorda; anzi, non si deve proprio ricordare, perché aveva fatto la Marcia su Roma, era sciarpa littoria e poi aderirà alla Repubblica di Salò. Insomma, era fascista.
Il generale Nicola Bellomo attaccò il 9 settembre i tedeschi salvando il porto di Bari: verrà fucilato dagli inglesi perché ritenuto colpevole di accuse che gli stessi corrispondenti britannici durante il processo ritennero pretestuose e inconsistenti. Bellomo fu fatto dimettere dall’esercito per poter consentire a Badoglio di lavarsene le mani in quanto non più militare ma civile. Una vergogna da non divulgare. La riabilitazione arrivò postuma perché il generale, con dignità, rifiutò di firmare la domanda di grazia. Non fu resistenza, questa?
Nell’Egeo la divisione Acqui combatté contro l’ex alleato tedesco, per volontà della truppa e di alcuni ufficiali dei quadri intermedi, seppur con l’equivoco del referendum del generale Antonio Gandin: un generale comanda, impartisce gli ordini e ne riceve, non fa il democratico dopo venti annidi dittatura. Era il generale al quale Mussolini aveva pensato di affidare il comando dell’esercito repubblichino e finirà fucilato assieme ai suoi ufficiali nella mattanza della vendetta tedesca su ordine diretto di Hitler. Per decenni questa resistenza con le stellette è stata ignorata e taciuta, e non a caso, mentre in Italia e all’estero soldati senza più la bussola gerarchica e con la sola stella polare dell’onore si arrangiavano per non finire rinchiusi nelle tradotte dirette nei lager nazisti, per riguadagnare la via di casa, e per riscattare l’onore nazionale prendendo la via delle montagne. Non furono tutti resistenti, a partire dai 650.000 internati militari che rifiutarono di rinnegare il giuramento al Re e di sostituirlo con quello a Mussolini e Hitler a prezzo di immani privazioni e sofferenze? Divennero invece simbolo di sconfitta, non di dignità, perché ci voleva molto più coraggio a rimanere nei lager che tornare in Italia e disertare alla prima occasione. I primi a resistere furono proprio i militari, e non solo perché avevano le armi e le sapevano usare. I Carabinieri ne nascosero altre e restarono a presidio del territorio e a tutela della popolazione in balia di uno spietato occupante e del fascismo redivivo.

LA PRIMA BATTAGLIA

La prima battaglia campale della Resistenza fu combattuta a Bosco Martese, nella montagna di Teramo, da militari agli ordini del capitano dei Carabinieri Ettore Bianco, il 25 settembre 1943. Vinsero loro, dopo tre ore di scontri con la Wehrmacht.
Per far battere bene gli italiani ci voleva una motivazione che il fascismo non sapeva e non poteva dare: un conto è la guerra col popolo, un’altra la guerra senza il popolo, e un’altra ancora la guerra contro il popolo.
Ma il popolo non fu protagonista della Resistenza come non lo era stato nel Risorgimento. Non fu fenomeno di massa e Renzo De Felice ricorse con efficacia alla suggestiva immagine della zona grigia, che andò a cozzare contro la narrazione ideologia di bianco e di nero e gli fece piovere sul capo critiche feroci e ingiuste.
I partigiani non liberarono l’Italia, perché non ne avevano né la forza, né la consistenza numerica né la possibilità. Furono una faccia della medaglia della libertà che la vulgata resistenziale pensa di lustrare con la retorica, quando invece ne consuma il volto svilendone il valore.

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