Eli rivive ogni notte l’incubo Hamas
Intervista di Fabio Tonacci a Sharon Sharabi
Testata: La Repubblica
Data: 07/03/2025
Pagina: 27
Autore: Fabio Tonacci
Titolo: Eli rivive ogni notte l’incubo Hamas dormo con lui come da bambini

Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 07/03/2025, a pag. 27, con il titolo "Eli rivive ogni notte l’incubo Hamas dormo con lui come da bambini" l'intervista di Fabio Tonacci a Sharon Sharabi.

fabio tonacci (@fabiotonacci) / X
Fabio Tonacci

Eli Sharabi rilasciato e umiliato da Hamas dopo quindici mesi di inferno nelle carceri segrete di Gaza. Ora il trauma è ancora forte e dorme assieme alla sorella, con l'incubo permanente dei mesi passati nelle mani dei terroristi.

Sharon ed Eli Sharabi dormono insieme come quando erano bambini. È una terapia psicologica per adulti smarriti, un patto di sangue tra fratelli, la via di fuga dalla realtà più penosa. Eli si addormenta e scivola sottoterra, nel tunnel dove è stato per quindici mesi, incatenato e affamato, privato della luce e delle scarpe, di nuovo nell’aria esausta dei cunicoli di Gaza che è priva di ossigeno e dolorosa perché con le costole spezzate ogni respiro è una lama che trafigge i polmoni. Nelle gabbie ci sono gli ostaggi ma anche le ombre del male che paiono immobili invece saltano addosso, e Eli si sveglia, gridando come se lo stessero strozzando. «Capita due volte, anche tre a notte», racconta Sharon, 48 anni. «Mio fratello spalanca gli occhi e vede me, sente la mia voce, si tranquillizza, dormo con lui nella stanza dell’ospedale, gli stringo la mano, non lo lascio più...».

Si dice che l’amore fraterno sia la forma più fondamentale di amore, per il senso di responsabilità, le premure e la comprensione dell’altro. I fratelli Sharabi lo esprimono con un patto tacito e inviolabile che prevede un’unica regola: Sharon non chiede ed Eli non dice.

Sharon non chiede cosa abbia subìto Eli nei 491 giorni di prigionia per essere ridotto così, un corpo che pesa la metà di prima, una mente annichilita. Il poco che sa è perché glielo ha riferito spontaneamente lui durante brevi momenti concessi al passato, a ciò che è stato. «L’8 febbraio è uscito dal bucodove Hamas lo aveva segregato, era uno scheletro e io ho pensato all’Olocausto», è la premessa di Sharon, che dopo il 7 ottobre ha mollato la propria vita per darne un’altra all’ostaggio Eli. Lavorava in banca e si è licenziato. Viveva a Alfei Menashe, in Cisgiordania, e si è messo a girare il mondo per implorare primi ministri e capi di stato di riportare a casa tutti i rapiti.

«So che lo hanno tenuto incatenato, che i ceppi gli hanno corroso la pelle, so che gli davano da mangiare mezza pita ogni due giorni, che l’acqua da bere era lercia e per questo ha sviluppato infezioni e malattie che nessuno ha curato, so che dormiva sulla muffa di un materasso, poco più di una stuoia, gli permettevano di lavarsi una volta al mese e lo pestavano ogni giorno, so che ogni mattina recitava lo “Shema Israel ” pur non essendo un uomo di fede, che era il leader del gruppo dei reclusi perché sa parlare l’arabo, però i carcerieri di Hamas hanno scaricato su di lui la frustrazione e i terroristi ragazzini lo hanno umiliato. Quando vedrete le cicatrici sul suo corpo, capirete». Ma la regola, tra i fratelli Sharabi, funziona anche al contrario: Eli non chiede. In queste tre settimane di libertà ritrovata e di lunghe sedute con psichiatri e dottori per la riabilitazione, non ha voluto sapere come è stata uccisa la moglie Lian al kibbutz di Be’eri, né ha voluto i dettagli dell’assassinio delle figlie Noya e Yahel (13 e 16 anni), non ha chiesto se hanno sofferto o se c’era modo di salvarle. Nessuna domanda sull’altro fratello, Yossi, rapito insieme a lui e deceduto durante il sequestro. Eli non ha chiesto niente. Tranne una cosa. «Ha voluto sapere del funerale, i particolari, la sepoltura, le emozioni, chi c’era, com’era il tempo, cosa è stato detto. Una settimana fa l’ho accompagnato al cimitero, ha pianto tanto. Mio fratello vorrebbe sentirsi chiamare ancora papà, è l’unico desiderio che gli è rimasto». Quella di Eli Sharabi, 51 anni, è «la più crudele delle storie del 7 ottobre » perché per 491 giorni non ha saputo. Era già vedovo quando è stato trascinato a Gaza, il lutto si era già consumato quando il pensiero delle figlie era il solo motivo per resistere e sopportare. L’8 febbraio, sul palco dove Hamas ha celebrato l’oscena coreografia del rilascio, Eli diceva di essere felice perché di lì a poco avrebbe rivisto Lian, Noya e Yahel.

Raccontare la verità fa parte dei compiti dei fratelli, quindi Sharon, quel giorno, ha indossato iltallit ,lo scialle della preghiera ebraica, e si è diretto all’ospedale Sheba di Tel Hashomer per accogliere il sopravvissuto Eli, consapevole essere portatore di una notizia più letale di una tortura.

«Era avvolto in una bandiera israeliana. Ha chiesto dove fossero le figlie e i soldati gli hanno detto che io, mia sorella e mia madre lo stavamo aspettando in una stanza appartata e che gli avremmo spiegato tutto. In quel momento Eli ha compreso, non ho dovuto aggiungere molte altre parole. Da una parte si sente fortunato e grato per essere ancora vivo, dall’altra sa di avere perso tutto ciò che conta. Però ce la farà, conosco mio fratello, intravedo dei raggi di sole nel suo volto smunto».

Eli parla spesso di Alon Ohel, il 21 enne pianista con cui ha condiviso gran parte delle giornate di niente e fame in fondo ai tunnel, si commuove ripensando all’istante in cui si sono separati. Sharon è consapevole che la missione non è conclusa, però adesso ha un aiuto in più. «Eli è accanto a me, intende impegnarsi per recuperare il cadavere di Yossi e liberare gli altri ostaggi. È molto convinto, è un obiettivo che lo fa andare avanti».

L’amore fraterno è la forma più fondamentale di amore perché è caratterizzato dall’assenza di esclusività. Lo diceva Erich Fromm. Se ami non puoi fare a meno di voler bene ai tuoi fratelli. Di sangue o di rapimento.

Per inviare la propria opinione alla Repubblica, telefonare 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante

rubrica.lettere@repubblica.it