Riprendiamo da BET Magazine di marzo 2025, a pagina 1, l'editoriale della direttrice Fiona Diwan dal titolo: "L’unità del popolo ebraico è il bene più prezioso"
Fiona Diwan
Calycantus, fiore del deserto, pianta ostinata come Israele e il popolo ebraico.
Cara lettrice, caro lettore,
in questa stagione buia dovremmo forse prendere esempio dal fiore del Calycantus, pianta ostinata e caparbia, capace di fiorire nel cuore dell’inverno, ripartendo, come la vita, quando tutto sembra immobile e opaco. Quando ci si sente smarriti, quando il mondo sembra scivolarti sotto i piedi, si dovrebbe andare in cerca del Calycantus, del suo profumo che stordisce, cercare la sua corolla abbarbicata a un ramo senza foglie, capace di sbocciare nelle nebbie gelide dei giardini pubblici di Milano. C’è qualcosa di mistico in questo fiore che spunta nel cielo desolato dell’inverno, qualcosa di soprannaturale nel suo biancore profumato mentre tutto è tetraggine.
È una domenica di fine febbraio, sui cespugli di Calycantus e nelle vie del centro città è apparso un po’ di sole: sebbene alla spicciolata, un gruppo nutrito di persone (circa 500) entra in un portone, un luogo di culto, una sinagoga dove si sta per inaugurare un nuovo Sefer Torà, dove si stanno per trascrivere a mano le ultime lettere ebraiche prima di riporre i rotoli nella custodia rigida dello “scrigno”, il Tik, la cui superficie è stata istoriata di stelle da un artista (vedi copertina e articolo a pag. 38). A guardare con attenzione, all’interno di ogni stella scolpita è segnato il nome di un ragazzo diverso: sono le centinaia di soldati israeliani caduti nella guerra dell’ultimo anno. Sono tutti lì, un nome dopo l’altro, come ad abbracciare l’interiorità sacra delle lettere ebraiche. Trascrivere un rotolo della Torà è un lavoro immane, difficilissimo, lungo, ma questo rotolo è stato trascritto a tempo record, è chiaramente un simbolo di rinascita e di caparbia unità, è un fiore d’inverno, è l’abbraccio di un destino comune nel freddo della storia ebraica, quel sentirsi fratelli nel pericolo, uniti anche a dispetto delle diversità di cui è portatore ciascuno di noi.
In questa sinagoga, in un angolo, è seduto un vecchio che si dice abbia appena compiuto cento anni: malgrado l’inaugurazione di un nuovo Sefer Torà sia un giorno di festa e gioia, lacrime silenziose scorrono sulle sue guance scavate. Sta pregando. Poi, si china sulle ginocchia, si mette le mani nei radi capelli, sembra voler affondare, quindi si tira su e continua a muovere le labbra. Chiede perdono, per qualcosa che sa solo lui.
O forse, chiede perdono per questo dolore, per un senso di sgomento che sembra non dover mai avere un termine.
Sono mesi difficili questi, vorremmo rendere di nuovo tutto leggero ma non è possibile, pena la menzogna, la finzione. Sono i mesi della restituzione degli ostaggi: vivi, morti, salvati e sommersi, marionette disarticolate nel corpo e nell’anima, come appaiono nei telegiornali. O racchiusi in macabre scatole nere. Chi mai potrà dimenticare il nome e le fotografie dei due piccoli Bibas? Ciò che dà senso alla vita, lo dà anche alla morte, scriveva Saint Exupery nel Piccolo Principe; ma qui dov’è il senso?
Sono mesi in cui notizie terribili non smettono di rincorrersi. Giungono sulle scrivanie dei giornali i report sulla crescita esplosiva dell’antisemitismo, un fiore del male che da un anno non smette di gonfiarsi in un crescendo che appare inarrestabile: e noi giornalisti, qui a esitare ogni volta, indecisi se darne informazione e parlarne – per non fiaccare il morale dei nostri lettori – oppure tacere questo eccesso di cattive notizie e minimizzare i sondaggi e le cronache destabilizzanti. Difficile scegliere tra realismo e pensiero positivo.
Forse anche noi dovremmo imparare a fiorire nel cuore dell’inverno, come la vita, come le lettere ebraiche di un Sefer, quando tutto sembra immobile e opaco. E prendere esempio dal Calycantus, appunto.
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