17/5/02 Premiata macelleria del Web
Sulle fotografie altamente incerte di Jenin che girano in rete. Sulla libertà di informare
Testata:
Data: 17/05/2002
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: un'analisi
Indymedia e gli altri
Sulle fotografie altamente incerte di Jenin che girano in rete. Sulla libertà di informare. Sulla necessità di difendersi di Giacomo Papi
Girano su Internet alcune spaventose fotografie che dimostrerebbero l'avvenuto massacro di Jenin ad opera dell'esercito israeliano. In redazione sono arrivate giovedì mattina. Mandate da un gentile professore universitario, in risposta all'inchiesta di Enrico Deaglio sui fatti di Jenin. Il testo recitava: "Illustre Direttore, le invio qui allegate alcune fotografie scattate a Jenin durante e subito dopo l'azione militare israeliana, di cui Lei fa un resoconto personale descrivendo (Diario del 3/5/2002, p. 14 e seguenti) quanto ha visto e sentito in occasione della sua visita, avvenuta dopo i fatti.
Evidentemente in una breve visita non si può veder tutto!". A seguire una decina di foto di corpi macellati. Corpi di ragazzini carbonizzati uno sull'altro, come ad Auschwitz, ragazze senza più faccia, uomini con il ventre squarciato da esplosioni. La maggior parte erano primi piani, altre ritraevano quello che sembrava un obitorio, in alcuni casi si potevano vedere cartelli scritti in arabo e in ebraico posati sui corpi.
La prima impressione è stata, ovviamente, violentissima. Nei primi istanti, l'istinto è stato quello di informare i lettori. Da un punto di vista giornalistico, la maggior parte delle immagini non aggiungevano nulla di nuovo a quanto già si sapeva. Il numero dei cadaveri non superava le dieci unità e quindi non dimostrava la carneficina di cui si era parlato nei primi momenti. Il valore informativo risiedeva nel fatto che quella gente era evidentemente morta, non per l'abbattimento degli edifici del campo profughi da parte dell'esercito israeliano, ma per esplosioni e bombe. Una sola immagine - quella dei corpi carbonizzati che sembravano di ragazzini ammonticchiati in una specie di corridoio - richiamava alla memoria con una drammaticità insostenibile le immagini dei campi di concentramento nazisti.
Prima di decidere che cosa fare di questo materiale, bisognava verificarlo. Siamo risaliti al mittente e ci siamo messi in contatto telefonico con lui. Il professore raccontò che le immagini erano state scattate personalmente da una donna israeliana di un'organizzazione pacifista (il cui nome sarebbe rimasto anonimo per paura di rappresaglie) che le aveva inviate a una pacifista romana. Era, comunque, assicurava il professore, materiale di prima mano raccolto nell'obitorio di Jenin. Non restava che contattare una pacifista romana che per prima aveva ricevuto le fotografie. Quando ci riuscimmo la verità era un po' diversa. Le foto erano state mandate da una ragazza palestinese di Ramallah che a Jenin non era stata (perché l'ingresso le era vietato). Non si sapeva chi le avesse scattate, né dove, se appartenessero tutte allo stesso posto, né quando.
La donna che per prima aveva ricevuto le fotografie, con molta più cautela di quella mostrata dal professore cui le foto erano giunte di terza mano, sospettava che fossero state scaricate dalla rete. Fece una ricerca e trovò due siti dove comparivano alcune delle foto ricevute e alcune che mancavano a quel campionario di macelleria che avevamo dovuto subire. E che molti in questi giorni si ritrovano a osservare attraverso e-mail o siti web. Il primo era (prima di cliccare sappiate che sono immagini davvero impressionanti, e inutili) un anonimo sito di Geocities, il secondo Indymedia, la bibbia del movimento antagonista, il sito a cui molti ragazzi di sinistra, peraltro pieni di buone intenzioni, intelligenti e preparati, credono ciecamente per la sua sbandierata indipendenza. (Anche se si è già distinto pubblicando I protocolli dei savi di Sion). Le due pagine web hanno titoli simili: "There was no massacre in Jenin" su Geocities, "Jenin, nothing to hide?" su Indymedia. Forse l'origine delle foto era questa, anche se a questo punto non stupirebbe scoprire l'esistenza di un terzo sito, una specie di catalogo generale delle brutture umane a colori, disponibile a chiunque avesse ragioni da difendere, verità proprie da propagandare, nemici da accusare di efferatezza.
Scoperta l'assoluta inconstenza di quelle prove fotografiche, torniamo a guardare le foto. Come detto, il valore documentale di molte di esse è povero. Dimostrano soltanto che la guerra è mostruosa e che la morte è molto più brutta e vicina e piena di impudicizia di quanto sembrerebbe leggendo i giornali. Resta la foto dei corpi carbonizzati, uno sull'altro, come in una recita post mortem, del tutto vergognosa, dei campi di sterminio e dei massacri più recenti di Bosnia. Una immagine che lascia però aperti alcuni dubbi. Sembra creata ad arte: se si crede al fatto che quella foto sia stata realmente scattata nell'obitorio di Jenin, bisogna concludere che qualche palestinese (visto che l'obitorio è gestito dai palestinesi) abbia pensato di mettere in posa i cadaveri in modo da aumentarne il carico di orrore. Più probabile che le foto provengano da fonti diverse. Forse alcune delle immagini sono state scaricate da uno degli infiniti siti che pubblicano materiale splatter, o magari dal sito della facoltà di medicina legale di qualche università, e trasformate in una prova inoppugnabile della crudeltà israeliana da qualcuno troppo convinto delle proprie certezze e troppo stupido per pensare a quello che stava facendo. In ogni caso: il valore di verità di tali immagini è completamente da dimostrare.
Come temevamo nei giorni seguenti queste fotografie hanno iniziato a rimbalzare da mailing list a mailing list. Arricchendosi nel loro percorso di altre foto e altri filmati (altra ricerca, altra scoperta: la fonte è Al Jaazeera: le fotografie, queste sì attendibili, dimostrano che quei poveretti sono effettivamente morti sotto le macerie) e disperdendo altre immagini. Sono state pubblicate per esempio dal portale su ambiente e salute www.clorofilla.it sotto il titolo "L'Olocausto di Jenin" e con questa spiegazione: "Riceviamo da una ragazza di Bir Zeit. Sono immagini terribili, ma che non possiamo non pubblicare. Sentiamo il dovere di farlo, seppur consapevoli del dolore che questa testimonianza potrà provocare". E pensare che il sito garantisce un team "formato da giornalisti esperti". Abbiamo deciso di parlarne, anche se avremmo preferito che non fosse necessario, perché questa roba sta raccogliendo credito. Riteniamo giusto mettere in guardia tutti dall'accogliere tali immagini, così come d'istinto abbiamo fatto noi, come prove di quello che sta avvenendo in Israele. Una situazione che è già abbastanza grave per appesantirsi di questa propaganda piena di sangue.
Alcuni pensieri: che cosa succederebbe se ognuno mettesse in rete le fotografie dei propri morti? In che cosa sarebbero diverse le immagini dei 16 morti israeliani della sala giochi di Rishon Letzion, un piccolo centro a sud di Tel Aviv, dello scorso 8 maggio? Che tipo di informazione è quella di un sito come Indymedia che, accostando un servizio di informazione reale e indipendente a vario pattume raccolto in giro o postato da anonimi lettori, rende di fatto impossibile distinguere ciò che è veramente successo da quello che si vorrebbe fosse successo per sostenere le proprie tesi? Ci siamo allora ricordati dei giorni di Genova e della denuncia, data per certa da Indymedia, e per altamente probabile dai legali del Genoa Social Forum, dei desaparecidos italiani. Avevamo preso sul serio quell'allarme, avevamo perfino pubblicato sul nostro sito un appello per raccogliere informazioni e nomi. L'unico caso segnalatoci fu quello di un ragazzo di un paesone veneto il cui nome era stato fatto, appunto, sul sito di Indymedia. Bastò inserire il cognome dello scomparso associandolo al paese di provenienza su Virgilio per ottenere il numero di telefono del padre. Bastò telefonare per venire a sapere che no, che il figlio era tornato la sera stessa. "E' un po' ammaccato, ma è qui", ci disse. La verifica in tutto durò dieci minuti.
Mi sono anche ricordato di un articolo che scrissi l'anno scorso proprio su Diario (Giro di vite, Diario, 13 aprile 2001) sulla nuova legge sulla stampa, la prima a prevedere una disciplina anche dell'informazione online. Nell'articolo criticavo le misure anacronistiche previste dalla legge e il suo dettato anti libertario, la sua pretesa di disciplinare quello che per definizione deve rimanere libero. Sull'inadeguatezza di quella legge, sul suo anacronismo non ho cambiato idea. Sulla necessità di fare in modo che qualcuno sia responsabile delle informazioni che vengono diffuse, purtroppo, dati questi esempi, non la penso più come prima.
A oggi l'unica verità su Jenin è quella del rapporto di Human Rights Watch. Ci sembra che quanto riportato sia abbastanza grave e inaccettabile per avere bisogno di essere peggiorato.



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