E se si (ri)parlasse dei rifugiati? 07/02/2025
Commento di Michelle Mazel
Autore: Michelle Mazel

E se si (ri)parlasse dei rifugiati?
Commento di Michelle Mazel 
(Traduzione di Yehudit Weisz)
https://israel247.org/et-si-on-parlait-des-refugies-147482.html

Et si on parlait des réfugiés – Israël 24/7

I paesi arabi fanno la voce grossa solo quando devono mettersi una kefiah e sventolare una bandiera, ma quando si tratta di accogliere rifugiati palestinesi chiudono le frontiere a doppia mandata. Il motivo è chiaro, non vogliono infiltrazioni terroristiche, ma semplicemente non lo dicono

Secondo la Convenzione del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, un rifugiato è una persona che si trova fuori dal Paese di cui essa è cittadina o in cui essa ha la residenza abituale. Una definizione che non si adatta del tutto alla popolazione di Gaza. Essa non ha una “nazionalità” in senso proprio e, nella stragrande maggioranza dei casi, si trova nel territorio in cui è nata e dove ha la sua residenza abituale. In realtà, si inserisce nel vasto fenomeno degli sfollati della prima metà del XX secolo e, più in particolare, nell'attacco concertato da parte dei Paesi arabi contro il giovane Stato di Israele, il giorno dopo la sua Dichiarazione di Indipendenza.

Dopo il fallimento di questo attacco, tra le sette e le ottocentomila persone della Palestina mandataria intrapresero la strada dell'esilio, insediandosi in campi di fortuna, poiché nessuno dei ventidue Paesi arabi aveva accettato di accogliere questi fratelli di religione che parlavano la stessa lingua. Nel contempo, 800.000 ebrei vennero cacciati dai Paesi arabi, dove le loro comunità vivevano da secoli. Il loro destino non preoccupa affatto l'ONU, che riserva – già allora! – la sua preoccupazione per i “rifugiati palestinesi” e crea per loro l’“Agenzia di soccorso e di occupazione per i rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente” , l’UNRWA.

Israele, che sta compiendo notevoli sforzi per accogliere i sopravvissuti alla Shoah e gli ebrei che cercano un destino migliore nella terra dei loro antenati, non esita e, nonostante le sue scarse risorse, apre le sue porte agli ebrei provenienti dai Paesi arabi. Oggi i loro figli e nipoti sono pienamente integrati e occupano posizioni di rilievo in tutti i campi. Un esempio recente: il prossimo comandante in capo delle forze armate è il nipote di un ebreo dello Yemen. Ma torniamo ai campi profughi arabi. Creando l'UNRWA, l'ONU capì che non aveva senso farsi illusioni e che non c'era motivo di contare sulla solidarietà araba. Allora sono state prese nuove disposizioni per loro. Lo status di rifugiato e i “benefici” che ne derivano – cibo, assistenza sanitaria, istruzione – avrebbero potuto essere tramandati di generazione in generazione. Ciò significa che oggi il numero di persone aventi diritto a questo titolo di grande valore è in costante crescita. Perché abbandonare i campi che garantiscono una forma di sicurezza, quando i Paesi arabi persistono nel loro rifiuto, e per di più possono usare questi campi e i loro abitanti come un mezzo per mantenere la pressione e l'odio verso Israele? Il che ci porta direttamente allo straordinario clamore suscitato nel mondo arabo contro il Presidente americano che ha avuto l’audacia, per non dire l’arroganza! – di proporre una soluzione ai due milioni e mezzo di abitanti di Gaza il cui Paese è stato devastato dallo scontro da loro stessi avviato contro lo Stato ebraico. Sappiamo che molti di loro non aspettano altro che andarsene.

Ci sono ormai due miliardi di musulmani nel mondo? Di cui quasi 500 milioni sono nei ventidue Paesi arabi? I palestinesi, non li volevano ieri ma, soprattutto, non li vogliono oggi.

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Michelle Mazel