Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 27/01/2025, l'analisi di Victor Davis Hanson, originariamente pubblicato su Mosaic, tradotto da Giulio Meotti nella sezione Un Foglio Internazionale dal titolo: "Se vuoi la pace, prepara la guerra".
L’attacco del 7 ottobre da Gaza non avrebbe dovuto essere possibile”. Si apre così un lungo saggio su Mosaic di Ran Baratz, che insegna Storia e Strategia militare nell’esercito israeliano. “Gli israeliani erano stati costantemente rassicurati dall’apparato di sicurezza e dai leader politici che Hamas era ‘scoraggiato’, che Israele aveva un ampio e sofisticato meccanismo di difesa e che le sue capacità di intelligence erano ineguagliabili. E così, gli israeliani hanno dovuto sopportare due shock quella mattina di Simchat Torah: l’attacco a sorpresa su larga scala, che l’Idf (l’esercito israeliano) non è riuscito a evitare, e le barbare atrocità commesse dai terroristi di Hamas e dai civili di Gaza. Poi è arrivato un terzo shock, che potrebbe sorprendere coloro che si affidano alle notizie in lingua inglese dei sostenitori di Israele all’estero, dei suoi leader politici o dei portavoce dell’Idf: l’alto comando israeliano ha impiegato settimane per formulare piani e preparare un’operazione a Gaza. Ancora peggio, nel giro di poche settimane dall’inizio dell’operazione via terra, è diventato evidente che la strategia iniziale era imperfetta, mal pianificata e ha rivelato un numero impressionante di fallimenti nella preparazione, nell’addestramento, nell’accumulo di forze, nell’equipaggiamento, nelle munizioni e nell’esecuzione.
Sebbene la società israeliana sia entrata in azione per aiutare a gestire i problemi logistici, è diventato chiaro che l’esercito era in condizioni disastrose. Fino ad oggi, un anno e tre mesi dopo l’attacco, nonostante numerosi successi tattici e un enorme investimento nazionale nella guerra, sia Hamas che Hezbollah sono riusciti a evitare la sconfitta totale e, nonostante i risultati dei soldati israeliani, l’Idf non è riuscito a garantire la vittoria totale. Inutile dire che Israele ha un esercito nazionale eccezionale. Lo spirito combattivo dei suoi soldati è ineguagliabile, il loro coraggio e impegno sono probabilmente senza pari nell’occidente odierno. Ma tattiche e coraggio da soli non bastano. Le capacità strategiche dell’alto comando sono essenziali per dare forma e direzione a campagne militari di successo. Pertanto, il mio obiettivo in questo saggio è esaminare quello che ritengo essere l’aspetto più critico della realtà rivelata il 7 ottobre e dopo: le dottrine militari e la mentalità di sicurezza nazionale che hanno portato al deterioramento decennale delle capacità delle Idf.
Forse la dimostrazione più grande della follia del nuovo approccio deriva, paradossalmente, dal crollo dell’Unione Sovietica. L’intera schiera di scienziati sociali, agenzie di intelligence e modelli complessi, lautamente finanziati per analizzare gli affari sovietici e il comportamento del Partito comunista, furono colti completamente di sorpresa. Si scoprì che avevano fondamentalmente sbagliato nelle loro valutazioni; era un’illusione mascherata da dottrina di sicurezza nazionale. Alcune figure di spicco, come l’illustre sovietologo Richard Pipes, lo ammisero e richiesero un esame critico di questo fallimento, ma pochi se ne accorsero. Possiamo riassumere la prima ondata di cambiamenti nel pensiero sulla sicurezza nazionale in questo modo: la strategia militare e la condotta di comando cedettero il passo alle teorie di deterrenza e alle scienze sociali. Il pessimismo che circondava la guerra nucleare portò a un ottimismo esagerato sull’applicabilità delle scienze sociali ai problemi di sicurezza nazionale. Ora il vocabolario delle dottrine di sicurezza nazionale era dominato da teorie e formule non militari. Se la Guerra fredda ebbe un effetto deleterio sul pensiero militare, l’effetto dell’era post Guerra fredda è stato ancora peggiore.
Il 25 dicembre 1991, il presidente sovietico Mikhail Gorbachev si dimise e la bandiera rossa con la falce e il martello che sventolava sul Cremlino fu sostituita dalla bandiera russa a tre colori. L’Urss non esisteva più. Il presidente George H.W. Bush tenne un discorso di vittoria natalizio e dichiarò che ‘lo scontro è ormai finito’ e che ‘i nostri nemici sono diventati nostri partner’. Il cambiamento nel clima internazionale fu potente e rapido. Sembrava ‘la fine della storia’, il titolo del libro di Francis Fukuyama, pubblicato nel 1992. Già a giugno di quell’anno, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Boutros- Ghali propose che l’Onu si assumesse la responsabilità di mantenere la ‘pace internazionale’ potenziando il suo ‘braccio di sicurezza’. Questa proposta prevedeva che l’Onu assumesse il ruolo di mantenimento della nuova ‘pace mondiale’ dai singoli stati. Gli stati occidentali erano già ansiosi di ridurre al minimo i loro eserciti, tagliare i bilanci della difesa e raccogliere il cosiddetto dividendo della pace.
La Germania fornisce un buon esempio di questa tendenza. All’inizio degli anni 90, più di mezzo milione di tedeschi prestavano servizio nella Bundeswehr per periodi di quindici mesi. Con il crollo dell’Urss, la Germania iniziò a ridimensionare il suo esercito e a ridurre la durata del servizio. Entro la fine degli anni 90, la coscrizione era stata ridotta a dieci mesi e l’esercito aveva circa 300 mila soldati. Entro il 2011, la coscrizione, allora di sei mesi, fu sospesa e l’esercito fu ridotto a meno di 200 mila unità. Oggi è ancora più piccolo, maa causa della guerra in Ucraina, i tedeschi stanno pensando di reintrodurre la coscrizione e riformare la Bundeswehr per renderla, nelle parole del ministro della Difesa Boris Pistorius, ‘in grado di combattere’ (kriegstüchtig).
Nel 1970, la spesa media dei paesi occidentali per la sicurezza era del 3,35 percento del pil; nel 1990 era scesa al 2,65 e nel 2015 ha raggiunto la sua media più bassa: l’1,5 per cento. Dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014, i capi di stato della Nato si sono incontrati in Galles e hanno rilasciato una dichiarazione in cui si impegnavano ad aumentare la spesa militare ad almeno il 2 per cento. In pratica, la maggior parte non è riuscita a rispettare tale impegno. Gli Stati Uniti sono il maggiore investitore militare, ma anche loro seguono lo stesso schema: da oltre l’8 per cento del loro pil nel 1970, sono passati a spendere il 5,61 per cento nel 1990 e il 3,46 per cento nel 2015. Questa è stata la seconda ondata di trasformazione della dottrina della sicurezza nazionale. Con l’Urss scomparsa, si credeva che la probabilità di una guerra convenzionale fosse scesa quasi a zero. Le uniche minacce rimaste erano le ‘guerre asimmetriche’, in cui i nemici erano piccoli stati del Terzo mondo e forze paramilitari. I concetti di sicurezza nazionale passarono da guerre che non possono essere vinte a guerre che non possono essere perse. Secondo il nuovo paradigma, il campo di battaglia è prima di tutto mentale. Mentre il pensiero militare convenzionale si concentrava sulla distruzione delle capacità militari del nemico, sperando di spezzarne lo spirito combattivo, il nuovo concetto militare mirava a abbreviare il processo mirando direttamente alla volontà dell’avversario. Ancora una volta, i desideri illusori hanno sostituito la strategia e il gergo il buon senso. Si pensava che influenzare la coscienza del nemico, attraverso varie manipolazioni e attacchi di precisione progettati per creare effetti psicologici specifici, fosse la strada per la vittoria. In verità, queste idee erano controverse fin dall’inizio. Ma divennero molto popolari nel clima post Guerra fredda dell’internazionalismo liberale. La convinzione che avremmo finalmente potuto eliminare la ‘nebbia della guerra’ e vincere in modo decisivo aggirando gli aspetti più difficili del conflitto violento era molto allettante.
Queste dottrine furono messe alla prova anche nella guerra in Iraq del 2003. L’Amministrazione Bush schierò circa 150 mila truppe, con la Gran Bretagna che contribuì con quasi 50 mila in più. Questa fu una forza significativa e riuscì a sconfiggere l’esercito di Saddam, che era tecnologicamente surclassato e impoverito da anni di sanzioni. Questa non fu certo una grande impresa. Inoltre, l’insurrezione che seguì suggerì che le tattiche di ‘shock and awe’ non rimodellano la psicologia dei nemici dell’America. Come Bush scoprì a sue spese nel 2007, sconfiggere l’insurrezione avrebbe richiesto la strategia molto tradizionale di inviare truppe aggiuntive, quella che è diventata nota come ‘Surge’.
Mentre gli Stati Uniti erano impegnati nel pensiero strategico della Guerra fredda, Israele ha combattuto guerre convenzionali nel 1948, 1956, 1967, 1973 e 1982. L’esperienza acquisita in battaglia ha compensato la mancanza di studi militari di alto livello che ha sempre afflitto l’alto comando dell’Idf. Le cattive idee (chiamate ‘concezioni’ nel gergo israeliano), come l’eccessivo affidamento alle valutazioni dell’intelligence o la linea di avamposti difensivi di Barlev, vicino al canale di Suez, facilmente invasa dagli egiziani nel 1973, furono testate empiricamente dai nemici di Israele e si dimostrarono imperfette.
In breve, l’Idf era orientato alla guerra e da questa attenzione derivava la preparazione operativa. Per la maggior parte, i suoi generali pensavano alla guerra, si assicuravano che le loro forze e i loro piani di guerra fossero ben preparati e si impegnavano in accesi dibattiti sulle alternative operative. Questa era la loro missione; questa era la loro mentalità. L’Idf era una macchina da guerra progettata per prepararsi allo scenario peggiore. Il suo obiettivo primario era sconfiggere l’esercito nemico e ha raggiunto questo obiettivo quando necessario. Poi, per più di un decennio, l’establishment della sicurezza israeliano ha definito solo due minacce convenzionali che l’Idf avrebbe dovuto affrontare: Hamas a Gaza e Hezbollah in Libano, entrambe organizzazioni terroristiche. A un certo punto, l’asticella è stata abbassata ulteriormente: l’Idf avrebbe dovuto essere in grado di attaccare solo un’organizzazione mantenendo una posizione difensiva contro l’altra. Questa prospettiva è sbagliata, dato che Israele ha vicini politicamente instabili con significative capacità militari e fazioni islamiste estreme che potrebbero salire al potere in qualsiasi momento. Ma l’establishment della sicurezza non lo trovava preoccupante. Sebbene Hamas fosse definita una minaccia, dopo il 7 ottobre 2023 si è scoperto che l’Idf non aveva piani operativi per un’invasione della Striscia di Gaza. Il comandante della divisione di Gaza, e in seguito dell’intero Comando meridionale, aveva decise che tali piani erano ridondanti. Non pianificarono, non costruirono e non si prepararono alla guerra. La prontezza operativa era carente, le forze erano scarse e mancavano informazioni di intelligence rilevanti. I cosiddetti professionisti della sicurezza sono diventati burocrati in uniforme, afflitti da tutti i mali tipici delle grandi e irresponsabili agenzie governative.
Scrivo una rubrica per il settimanale israeliano Makor Rishon. Lo Shabbat del 30 settembre 2023, il numero della settimana era incentrato sull’intelligence militare. Lo Shabbat successivo, migliaia di terroristi di Hamas si sono infiltrati in Israele, cogliendo di sorpresa l’intero apparato di sicurezza. Il mondo intero ha assistito alla tragedia di abbandonare questo evidente principio di sicurezza nazionale e sostituirlo con la vuota arroganza delle scienze sociali che tormenta la comunità dell’intelligence. Si potrebbe sostenere che Israele stia vincendo contro Hamas e Hezbollah e che le cose non sono così brutte come sostengo. Dopo tutto, dal 7 ottobre, l’Idf ha condotto guerre sia contro le organizzazioni terroristiche che contro i loro padroni a Teheran, e sembra aver avuto successo. Non condivido questa opinione. Sì, Israele ha ottenuto molto negli ultimi mesi e l’Idf ha avuto molti successi tattici. Tuttavia, l’apparenza di un successo strategico complessivo è fuorviante.
A quindici mesi dall’inizio della guerra, il 30 per cento della Striscia di Gaza non è mai stato invaso. Un ulteriore 40 per cento rimane libero dalla presenza israeliana, perché le forze israeliane continuano il ciclo di incursioni e ritiri. Sebbene le sue capacità militari siano state ridotte e parte della sua leadership eliminata, Hamas mantiene ancora il controllo sulla maggior parte di Gaza e sull’intera popolazione. Questa situazione non è dissimile da quella del Libano. In breve, le vittorie tattiche, attese nelle guerre asimmetriche, non hanno rappresentato un risultato strategico. Israele deve tornare a una mentalità militare classica. Niente scoraggia i nemici più efficacemente della preparazione alla guerra. Queste verità fondamentali sono state dimenticate in Israele”.
(Traduzione di Giulio Meotti)
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