Gadi Luzzatto Voghera: L’antisemitismo a sinistra è il più pericoloso
Intervista di Claudia Osmetti
Testata: Libero
Data: 26/01/2025
Pagina: 9
Autore: Claudia Osmetti
Titolo: L’antisemitismo dell’estrema sinistra è il più pericoloso

Riprendiamo da LIBERO del 26/01/2025, a pag. 9, con il titolo "L’antisemitismo dell’estrema sinistra è il più pericoloso" l'analisi di Claudia Osmetti. 

Claudia Osmetti
Claudia Osmetti

Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea

«L’antisemitismo è uno strumento politico che trova varie forme di espressione in diversi campi politici a ondate più o meno visibili». Gadi Luzzatto Voghera ha un curriculum che parla da sé: è il direttore della fondazione Cdec, tanto per cominciare, il Centro di documentazione ebraica contemporanea; è uno studioso, è uno storico, è un membro dell’International holocaust remembrance alliance, ha scritto (nel 2007 per Einaudi) un piccolo e illuminante saggio che si intitola Antisemitismo a sinistra. È uno, Luzzatto Voghera, che cerca di essere il meno preconcetto possibile e parla solo di cose che conosce bene. «Nella destra», dice, «l’antisemitismo è sempre molto visibile perché viene praticato in maniera magari programmatica da formazioni anche molto estreme come Forza Nuova, Casa Pound o quelle che si infiltrano nelle curve da stadio. Questa è stata un po’ la nota dominante per decenni».

Dottor Luzzatto, e adesso?
Mi faccia chiarire, ci tengo a non generare equivoci: gli episodi antisemiti sono da condannare sempre, indipendentemente dalla parte da cui arrivano. Tuttavia oggi, dal 7 ottobre in avanti, è cambiato qualcosa?
«Con questo conflitto, e con la polemica che ne è seguita, il cosiddetto io-non-sono-antisemita-ma-sono-antisionista che è una sciocchezza senza quartiere, abbiamo notato degli atti, delle manifestazioni, delle retoriche che sì, sono molto numerosi. I dati dicono che la grandissima parte delle espressioni online e delle aggressioni compiute in quest’ultimo anno è legata al conflitto in Medioriente. È praticata da gruppi estremi, in questo caso della sinistra, che usa certi tipi di linguaggio antisemita per sostenere le sue opinioni».

Che impatto ha?
«Purtroppo l’antisemitismo è un linguaggio politico che ha una grandissima efficacia. I gruppi organizzati che scendono in piazza sanno che con determinate “parole d’ordine” riescono a raccogliere la simpatia di molto pubblico. È una malattia della nostra modernità, naturalmente non dobbiamo rassegnarci a conviverci, però dobbiamo segnalarla».

Mi viene in mente un recente intervento di Bernard Henri Lévy. Lévy dice che, in Francia, la sinistra, quando ricorda il pogrom di Hamas, aggiunge sempre un’avversativa. Sì-Israele-è-stato-attaccato-però-ha-le-sue-colpe-come-l’apartheid. Che è pure un modo per sminuire l’orrore. Lévy cita Jean-Luc Mélenchon per ragioni territoriali, ma non è molto distante dai discorsi che sentiamo nei nostri talk-show. È così anche in Italia?
«Sì, tendenzialmente sì. C’è un pregiudizio negativo nei confronti dello Stato ebraico che però utilizza Israele a fini immediati di bottega politica, perché in realtà l’Israele di cui parla è un Israele che non esiste».

In che senso?
«Vogliamo parlare di Israele e dell’apartheid, come cita lei: bene, ma dove, chi, quando? È palese che il pregiudizio, glielo ripeto: è un pregiudizio politico originario, sia evidente e ci sono certi salotti buoni della sinistra che lo praticano in maniera abbastanza continuativa. Però dobbiamo essere onesti e ammettere che su Israele c’è un risvolto della medaglia».

Quale?
«In alcuni ambienti paralleli della destra politica qualsiasi cosa faccia Gerusalemme va bene».

Forse deriva dal confondere Israele con il governo di Benjamin Netanyahu, quindi di destra?
«Ricordiamoci che in Israele esiste una lotta politica furibonda, molto aperta, esplicita e che non è mai valorizzata perché quando si parla di Israele è come se avessimo in mente un monolite. Invece è una realtà articolata come tutte le realtà politiche in questo mondo».
Certo, è una democrazia occidentale. Senta, lei il 27 gennaio che farà? Glielo chiedo perché, per esempio, la comunità ebraica di Milano ha deciso di non partecipare all’incontro in Comune per una «eccessiva politicizzazione di alcune associazioni promotrici»...
«Il giorno della Memoria è un momento molto importante nella vita civile, è il frutto di una battaglia culturale che ha portato a un pronunciamento bipartisan per elaborare una legge che ha dato vita aun lavoro culturale gigantesco negli ultimi 25 anni. A chi dice basta, io rispondo che sono fortemente in disaccordo. Con le associazioni si può essere più o meno d’accordo, ma in occasioni del genere si è perfettamente legittimati a esprimere le proprie opinioni anche di dissenso, però non per questo siamo legittimati a buttare nel dimenticatoio un momento che ha visto e vede un lavoro che ha determinato un cambiamento nella nostra convivenza civile».

Però mi scusi, c’è una parte politica che cerca di parlare di genocidi al plurale: non è fuorviante?
«Non mi fraintenda: io non faccio altro che criticare queste affermazioni e dal primo momento in cui è emersa l’ignobile mania di utilizzare lo stesso concetto, il genocidio. Addirittura ho sentito parlare “delle Shoah di oggi”. La distorsione della Shoah è uno degli elementi che caratterizzano l’antisemitismo contemporaneo e va condannata. Però questo non giustifica l’andarsene via, perché allontanarsi da una situazione del genere significa volersi isolare e l’isolamento non ha mai portato a niente di buono».

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