Riprendiamo dal FOGLIO del 21/12/2024, a pag. II, con il titolo "L'oppio dei dazi" l'analisi di Siegmund Ginzberg.
Siegmund Ginzberg
Trump le cose le dice chiare. “Ho detto all’Europa che devono rimediare al nostro tremendo deficit commerciale con acquisti in grande quantità del nostro petrolio e nostro gas. Altrimenti saranno DAZI [tutto maiuscolo nell’originale] a tutt’andare!”. Prima, molto prima delle guerre di dazi doganali minacciate da Trump c’erano state le guerre dell’occidente alla Cina per l’oppio. Le aveva fatte l’Inghilterra. Poi si erano aggiunti tutti gli altri, a dare man forte agli inglesi in aggressioni, massacri, crudeltà, saccheggi, imposizioni contro la Cina. Anche gli Stati Uniti, che pure erano nati ribellandosi ai dazi inglesi sul tè. Anche la Francia che aveva combattuto l’Inghilterra per decenni, anzi secoli, Anche Germania, Russia, e poi persino l’Italia, a prendersi il suo pezzo di bottino, Tianjin.
Furono i grandi giornali di Londra a dare a quelle guerre il nome infame che gli è rimasto appiccicato: Opium Wars, guerre dell’oppio. Era cominciata come guerra di dazi. Per rimediare ad un deficit commerciale che l’Inghilterra riteneva insostenibile. C’era pure una sorta di tossicodipendenza. L’Inghilterra era dipendente dal tè cinese, unico lusso di cui anche le classi lavoratrici non riuscivano a privarsi. Gli inglesi glielo volevano pagare con propri prodotti. I cinesi pretendevano che il tè gli venisse pagato in argento. Dei prodotti delle manifatture britanniche non ne volevano sapere.
“Il nostro Celeste impero possiede di tutto, in grande abbondanza, entro i propri confini. Non abbiamo bisogno proprio di nulla che voi possiate offrirci. Invece il tè, la seta, la porcellana che il nostro impero produce sono un’assoluta necessità per le nazioni europee”, era stata la sprezzante risposta dell’imperatore Qianlong all’ambasciata inviatagli a Pechino da re Giorgio III. Neanche i doni, squisiti oggetti meccanici, avevano destato l’interesse del Celeste imperatore. Li aveva definiti “giocattoli”. Certo che si sono vendicati. Ormai i giocattoli, per grandi e piccini, sono tutti, ma proprio tutti “Made in China”. Babbo Natale lo sa bene.
Finché gli inglesi trovarono un prodotto, un’offerta “che non si può rifiutare”, per dirla con Don Corleone: l’oppio. La Cina finì con lo sviluppare una dipendenza dall’oppio. Più lo si proibiva, più veniva desiderato, consumato, spacciato. Veniva coltivato in India e contrabbandato via Hong Kong. Il traffico dell’oppio fu l’espediente per evitare che l’Inghilterra facesse bancarotta. Ogni epoca, ogni paese ha i propri pusher e le proprie tossicodipendenze. L’Europa è dipendente da gas e petrolio. Il pusher russo ha fatto l’errore di invadere l’Ucraina. Quello americano ora parla fuori dai denti: o ci comprate il nostro petrolio, o massacriamo di dazi le vostre esportazioni.
Nell’Inghilterra dell’Ottocento c’erano due scuole di pensiero. Anzi, due partiti, sostengono gli storici: il “partito della guerra” (contro la Cina), e il “partito della pace”. Il partito della guerra la spacciava come conflitto tra “civiltà” e “barbarie”, tra democrazia e dispotismo. In effetti per l’Inghilterra era vitale esportare e vendere i propri prodotti. Difendere commercio e manifatture nazionali veniva presentato all’opinione pubblica come questione di vita o di morte. Equivaleva a difendere il modo di vita britannico. Sono passati un paio di secoli e più. Gratta gratta, le argomentazioni sono rimaste più o meno le stesse.
Ciascuno dei due partiti aveva i propri lobbisti, le rispettive cordate di politici, imprenditori, finanziatori. Tiravano per la manica il governo di Sua maestà in una direzione o l’altra. Ciascuna delle due parti aveva arruolato intellettuali, giornali, grandi firme, scrittori famosi a sostegno della rispettiva causa. Prima che divenisse guerra guerreggiata fu guerra di informazioni, anzi di reti di informazioni contrapposte.
Il partito della pace era sostenuto dai più noti e prestigiosi intellettuali dell’epoca. Aveva alle spalle i padri dell’economia politica: Adam Smith e David Ricardo, per i quali il libero commercio era il fondamento della “ricchezza delle nazioni”. Il partito della guerra faceva leva sull’orgoglio nazionale. Ne faceva questione di bandiera e puntiglio. Tra chi deprecò le guerre dell’oppio c’era Karl Marx, un esule dal continente che passava le sue giornate a studiare Smith e Ricardo alla British Library, e a scrivere articoli per un giornale americano, il New York Tribune (l’attività retribuita che mantenne più a lungo). Marx non era solo. A non volere la guerra c’era metà Inghilterra. Fantastica la testimonianza fornitaci dai resoconti parlamentari della House of Commons dell’epoca.
La potentissima lobby dei mercanti britannici di Hong Kong, punta di diamante del partito della guerra, era guidata da un imprenditore iperattivo e geniale, William Jardine, e dal suo socio James Matheson. Entrambi scozzesi, erano gli Elon Musk del loro tempo. Non era facile convincere i loro connazionali che bisognava, in nome della libertà di commercio, imporre con la forza ai cinesi un prodotto, l’oppio, che era già stato proibito e aveva una pessima nomea in Inghilterra. Degli effetti esiziali dell’oppio parla tutta la grande letteratura dell’epoca, da Thomas de Quincey a Charles Dickens. Matheson ebbe la geniale idea di assicurare al partito dei mercanti di oppio “i servizi di qualche giornale di punta” e di “qualche uomo di lettere”. The Opium question, da loro commissionato a un autore di bestseller, tale Samuel Warren, andò a ruba. La campagna ebbe un effetto simile a quello di X (già Twitter) sulle recenti presidenziali Usa. Uno studio recente di Song-Chuan Chen, Merchants of War and Peace: British Knowledge of China in the Making of the Opium War (Hong Kong University Press), sostiene che si trattò di un titanico scontro tra gli sforzi di chi voleva conoscere meglio la Cina e gli sforzi di chi faceva propaganda per additarla come il nemico assoluto.
Alla fine sui dubbi morali prevalsero le ragioni dell’economia e dell’orgoglio di Stato. Riuscirono a convincere la Corona che non era tollerabile farsi mettere sotto dal dispotismo, “barbaro”, “dispotico”, “retrogrado” della Cina. I Cartisti, l’embrione dei movimenti di difesa dei diritti del lavoro, erano schierati su posizioni pacifiste. Ma anche tra gli operai facevano presa, allora come oggi, argomenti tipo “Make Britain Great Again”, “Prima gli inglesi”, e così via. Il Parlamento britannico approvò con 261 voti contro 217 – tutt’altro che all’unanimità – la decisione di inviare soldati e cannoniere a vendicarsi delle offese cinesi.
In realtà Cina e Inghilterra erano già allora molto più interdipendenti di quanto davano ad intendere. Non potevano fare a meno l’una dell’altra. Così come oggi non possono fare a meno l’una dell’altra America e Cina. Per combinazione i possibili casus belli di oggi c’è anche uno stupefacente. L’analogia è troppo ghiotta per non proporla ai miei lettori. Il fentanyl è un oppiaceo sintetico, interamente prodotto in laboratorio. Ha un effetto analgesico potentissimo, fino a diecimila volte superiore alla morfina. In medicina è usato per rendere meno insopportabile il dolore dei pazienti terminali. Oltre ad alleviare il dolore, combatte l’ansia, produce euforia. Crea più assuefazione di qualsiasi altra droga. Produce più morti da overdose di qualsiasi altro stupefacente al mondo. Dal 2018 in poi ha largamente superato in mortalità l’eroina.
Tutto quello che vorreste sapere sulla produzione e diffusione criminale delle droghe sintetiche lo trovate in una serie tv americana di grande successo: Breaking Bad. Oltre alla suspense, ha il pregio di essere una brillante promozione degli studi di chimica. I cartelli della droga messicani già starebbero reclutando a tutt’andare nelle università gli studenti di chimica più brillanti. Per “cucinare” a puntino – così si dice in gergo – il fentanyl. O per riuscire a farsi in proprio anche le sostanze base, senza più dover dipendere dalle forniture cinesi.
I cinesi stanno deliberatamente “attaccando” gli Stati Uniti, è stato uno dei luoghi comuni della narrazione nel campo di Trump. Lo fanno apposta per minare l’America, il refrain dei teorici del complotto. Il fentanyl fa 400.000 morti all’anno negli Stati Uniti. Molti di più di quanti ne fece Bin Laden. Com’è possibile che l’America stia a guardare, non stia facendo nulla contro il paese complice di questa gigantesca operazione commerciale, finanziaria, di riciclaggio di denaro imbastita dai cartelli della droga? Questa era stata a lungo una delle molte accuse del campo di Trump all’Amministrazione Biden.
Gli oppiacei sintetici non sono certo l’unico o il principale punto di frizione tra America e Cina. Ce n’è un’infinità. A partire dall’auto. Il mercato automobilistico è in fibrillazione ovunque. La Cina è diventata il maggior esportatore di automobili nel mondo. A differenza di Stellantis e Volkswagen, la Cina ha scommesso e investito da tempo nell’auto elettrica. Potenzialmente il mercato dell’auto cinese è grande quanto i mercati americano ed europeo messi insieme. Ma la capacità produttiva è il doppio di quel che può assorbire il loro mercato interno. Hanno avviato la costruzione di una flotta di 170 navi supercargo capaci di caricare migliaia di automobili alla volta. Prima del Covid ne costruivano quattro all’anno.
I due giganti America e Cina si guardano in cagnesco su quasi tutto. Dalla soia per nutrire i porci, ai chip che fanno funzionare i cellulari e guidano i missili, all’intelligenza artificiale, alla robotica, ai futuri computer quantistici. Difficile tracciare una linea di demarcazione netta tra altolà dettati da ragioni strategiche e militari e quelli dettati da interessi commerciali. Non sappiamo quanto litigheranno e sino a che punto si metteranno invece d’accordo. L’ambizione della Cina è sempre stata superare economicamente l’America. Gli Stati Uniti non intendono permettere che la Cina li superi. In alcun modo, non importa che al potere ci siano i repubblicani o i democratici. Cinquant’anni fa molti davano per sicuro che si andasse di nuovo ad una guerra tra America e Giappone. Japan Number One era la grande ossessione collettiva. Svanì di colpo quando, invecchiando precocemente, il Giappone inciampò malamente nella corsa al primato. Ora è la Cina a essere messa male sul piano demografico. Dal miliardo e mezzo che sono rischiano di ridiscendere a 700 milioni da qui a fine secolo.
Rispetto all’Ottocento, l’inventario dei possibili pretesti di guerra commerciale o guerreggiata (basta un nonnulla per passare dall’una all’altra) si è allargato a dismisura. Sia pure a ruoli invertiti rispetto a due secoli fa. Allora era l’Inghilterra ad accusare la Cina di chiudersi a riccio. Ora succede esattamente il contrario. E’ la Cina a ergersi a campione del libero commercio. E’ l’America a alzare gli scudi tariffari. Contro la Cina. Ma anche contro Messico, Canada ed Europa, la quale, stretta nel fuoco incrociato di America e Cina, non sa che pesci prendere. Rischia di prenderle dall’uno e dall’altro dei litiganti.
C’è invero chi ritiene che Trump non sappia ancora bene dove vuole andare a parare. C’è chi ipotizza che l’intera faccenda dazi sia per lui una gigantesca partita a poker col resto del mondo. Nella quale, come in Casinò Royale di James Bond, ad ogni mano si rinnovano le scommesse e cambia la combinazione tra le carte scoperte sul tavolo e quelle in mano a ciascun giocatore. Tra i neo nominati nell’Amministrazione Trump c’è chi sdrammatizza. Le minacce, dicono, sarebbero solo strumenti di pressione per meglio negoziare. Altri invece sembrano non vedere l’ora che la sparatoria sui dazi cominci.
Circolano le idee più bizzarre. Tra i molti aspiranti consiglieri di Trump c’è chi pensa ai dazi come alleggerimento del deficit pubblico. O come copertura per i promessi alleggerimenti fiscali. C’è chi suggerisce addirittura che le tariffs possano sostituire l’intero gettito fiscale federale. Tra gli alleati dell’America c’è chi tenta la via dello “io speriamo che me la cavo”. Il premier canadese Trudeau si è precipitato a Mar-a-Lago per tentare un negoziato anticipato. In un’intervista al Financial Times, la presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, ha detto che gli europei dovrebbero presentarsi a Trump con il libretto di assegni, dicendogli: “Quanto gas e quante armi vuoi che ti compriamo per dimenticare questi maledetti dazi?”. Trump, a quanto pare, è disposto a venire a vedere.
Per esorcizzare la minaccia delle auto giapponesi, l’avvocato Agnelli diceva che non c’era troppo da preoccuparsi, tanto prima o poi il Giappone sarebbe stato raso al suolo dal Grande terremoto. Il guaio è che i dazi sono stati la principale promessa elettorale di Trump. E in qualche modo lui è obbligato a mantenerla. Anche al punto che all’economia americana finiscano col costare molto più di quanto promettono di rendere. Altro che forconi da parte dei suoi stessi elettori se le tariffe riaccendono l’inflazione.
Il colmo è dover sperare che Trump ascolti i buoni consigli del suo amico Elon Musk. A Musk conviene fare affari, non la guerra, con la Cina. Oltre il 40 per cento della capacità di produrre auto elettriche della sua Tesla, e un quarto delle vendite mondiali, dipendono dalla fabbrica di Shanghai (finanziata dai cinesi). Il downside, la controindicazione, è che a Musk potrebbe convenirgli di più vendere satelliti, tecnologie spaziali a uso militare, al Pentagono.
Musk è buon amico di Xi Jinping. Come di molti altri autocrati, o aspiranti autocrati nel mondo. Della democrazia non gli importa un fico secco. Anzi. I cinesi ricambiano esibendo sui loro siti social ammirazione per Musk. E anche per Trump. Tra “uomini forti” ci si intende. Al tempo del Covid gli americani menavano vanto che fosse stato il loro capitalismo a scoprire i vaccini, non il dispotismo cinese. Potrebbero doversi ricredere. Specie se passa come ministro della Sanità il no vax Robert Kennedy Jr. Non tutti, specie in America, sono convinti, tanto per parafrasare il vecchio motto che fu coniato a proposito di General Motors, che quel che conviene a Musk convenga all’America. A me però fa venire il magone pensare che un tempo c’era chi lo diceva a proposito della Fiat e degli Agnelli.
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