Riprendiamo da LIBERO di oggi, 20/12/2024, a pag. 1/15 con il titolo "No: Kiev non si è arresa. Accetta lo schema Trump, pace attraverso la forza" il commento di Giovanni Sallusti.
Giovanni Sallusti
Salvo rarissime eccezioni, l’italico Giornale Unico conferma di essere costituto da una serie di filiali nostrane de La Pravda. La linea la dà Il Fatto Quotidiano, e non è un bel segnale: «Abbiamo perso la guerra», con uno Zelensky in posa, visto quanto il momento del (supposto) trionfo dello Zar di tutte le Russie è solenne per Travaglio & C. Altri provano quantomeno a contenere il compiacimento, ma la parola “resa” è stata di gran lunga la più gettonata sui quotidiani e in tutto il dibattito di ieri. Si è così creato uno sdoppiamento surreale: mentre lo Zelensky immaginario e auspicato dalle penne tricolori (peraltro al calduccio garantito dalla protezione di quella Nato su cui sputacchiano) si arrendeva dando loro ragione, lo Zelensky in carne, ossa e mimetica ribadiva al Consiglio europeo la contrapposizione esistenziale con la Russia e, certamente, la possibilità di una pace concreta con il nemico. Che c’entra con la resa come la negoziazione c’entra con il suicidio: nulla.
Per uscire dal garbuglio, bisogna tornare alle parole rilasciate dal presidente ucraino a Le Parisien, ampiamente strumentalizzate da pacifisti farlocchi e putinisti autentici. «L’Ucraina da sola non può recuperare la Crimea e il Donbass. Di fatto questi territori sono ora controllati dai russi. Non abbiamo la forza per riconquistarli. Possiamo contare solo sulla pressione diplomatica della comunità internazionale per costringere Putin a sedersi al tavolo delle trattative». Né più né meno che la presa d’atto realista che i territori «ora controllati dai russi» (non altri, non c’è crollo del fronte in nessun punto, c’è un terrificante congelamento da trincea) non possono essere ripresi dall’esercito di Kiev.
La quale va unita alle frasi più salienti dette ieri a Bruxelles, l’altra faccia della medaglia del realismo politico che l’ex uomo di spettacolo ha introiettato in fretta: «Trump è una persona forte, è importante che sia dalla nostra parte e ci aiuti a fermare la guerra. Voglio condividere con lui più dettagli: conto di avere tempo per parlare, pensare, ascoltare la sua visione e mostrargli la nostra».
Per chiunque non scambi il mondo con la caricatura monocorde che ne fa la propaganda del Cremlino, è evidente che l’attuale posizionamento di Zelensky (in parte nuovo, ma per un politico l’adattamento strategico è un pregio) è il contrario della resa, è l’adesione allo schema-Trump, l’unico che oggi può credibilmente salvare l’Ucraina (le spacconate belliciste europee rimarranno sempre e solo tali, finché saranno messe sul conto del contribuente americano).
È MOSCA CHE È DEBOLE OGGI
Lo schema-Trump è la pace attraverso la forza (concetto non a caso evocato dal leader ucraino), e non è materia accademica, è quella postura ultrarealista, da businessman prima che da politico puro, che durante il primo mandato ha convinto Vladimir Putin a sospendere la propria vocazione neo-imperiale e starsene ben rintanato nelle sue steppe. Dialogo, negozio, non sovra-espongo gli Stati Uniti nel globo (soprattutto non sui fronti secondari, siamo nel secolo del Pacifico), ma se ci intendiamo sulla premessa: la soverchiante potenza americana. Per questo da presidente fornì i micidiali missili anticarro Javelin all’Ucriana, così decisivi oggi per l’equilibrio del fronte.
Per questo all’indomani del tracollo del regime di Assad, avamposto russo in Medio Oriente e sbocco dell’Orso sul Mediterraneo, si affrettò a dire a Putin: «Hai perso, ti conviene fare la pace». Per questo, dopo essere stato informato (e probabilmente aver condiviso, com’è normale nella fase di transizione tra le amministrazioni) dell’invio degli Atacms per colpire in profondità nel territorio russo si è poi detto in disaccordo, aggiungendo: «Potrei revocare la decisione». Occhio al condizionale: potrei, Vladimir. Come potrei «riempire l’Ucraina di armi molto più di quanto ha fatto Biden» (lo ha dichiarato più volte nelle scorse settimane) se non ti siedi al tavolo, se non usciamo dal macello.
RIMETTERE PUTIN AL SUO POSTO
È questo il nuovo paradigma (re)inaugurato da Trump, il negoziato come via preferibile per entrambi, aggressore ed aggredito, Zelensky l’ha capito e ci si è infilato dentro al volo.
Quanto a Putin, c’era immerso già quattro anni fa, non a caso ieri, inframmezzato da toni più apocalittici ad uso interno, ha rilasciato il virgolettato-chiave: «Sono pronto a parlare con Trump. La politica è l'arte del compromesso e i negoziati sono un compromesso». Solo quelli più zaristi dello Zar possono descrivere questo scenario come “resa” altrui. Come ha detto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari, intervistato ieri da La Presse: «È una incredibile distorsione della realtà. Un enorme regalo di Natale che la gran parte della stampa italiana ha inspiegabilmente deciso di fare alla disinformazione russa». Regalo evidentemente in malafede, visto che per uno sguardo intellettualmente onesto sarebbe bastato e avanzato il titolo del colloquio con Le Parisien, come ha rammentato ancora Fazzolari: «Dobbiamo rimettere Putin al suo posto». Dobbiamo rimettercelo con realismo, dobbiamo rimettercelo contemplando la dolorosa possibilità di concessioni territoriali, dobbiamo rimettercelo continuando a insidiarlo nel Kursk (dove gli ucraini hanno eliminato i primi contingenti nordcoreani, bizzarro modo di arrendersi), dobbiamo rimettercelo condividendo l’agenda col grande negoziatore che ha già dimostrato di addomesticare l’Orso. Altro che resa. Quella è chiacchiericcio al di qua dell’Atlantico: il pallino, per fortuna, è al di là.
Per inviare a Libero la propria opinione, telefonare: 02/99966200, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
lettere@liberoquotidiano.it