Riprendiamo da LINKIESTA , con il titolo "Ecco dove la Cina pensa di costruire le basi navali per controllare il mondo", l'analisi di Gianni Vernetti.
Gianni Vernetti
Con la Nuova Via della Seta, la Cina irrompe radicalmente nella scena globale convinta che il tempo di una Cina remissiva e con lo sguardo rivolto al proprio interno fosse finito: la crescita economica, i risultati nel campo della lotta alla povertà, il tasso elevato di sviluppo raggiunto in molte aree del Paese, hanno convinto la nuova leadership che fosse giunto il tempo di promuovere ed esportare il proprio modello politico ed economico nel mondo.
L’illusione del mondo occidentale di avere incluso la Cina in un sistema economico globale, confinandola al ruolo di fabbrica del mondo nella quale delocalizzare con facilità le proprie produzioni a costi ridotti, si è rivelata per molti versi ingenua.
La nuova stagione di Xi Jinping è stata da connotata da una sempre maggiore assertività della Repubblica Popolare sulla scena globale, fino all’alleanza senza limiti con Vladimir Putin e alla costruzione di una rete sempre più coesa fra i principali regimi del pianeta, quell’Asse delle Autocrazie, che vorrebbe cambiare in modo drastico le regole della politica internazionale.
La saldatura poi fra il progetto della Via della Seta la “Global Security Initiative” (un’ampia serie di progetti con paesi terzi nei settori della difesa e della sicurezza), descrive con chiarezza le ambizioni politiche e militari di Pechino, che vengono sempre più declinate con progetti che incrociano la sfera finanziaria, quella economica e quella militare.
Questa è la cornice nella quale la Repubblica Popolare Cinese sta negoziando una serie di accordi con Paesi terzi, soprattutto nell’area dell’Indo-Pacifico, per espandere la propria presenza militare e di sicurezza internazionale, ampliando così il raggio d’azione dell’Esercito Popolare di Liberazione.
Dopo la prima base militare al di fuori della madrepatria, già operativa a Gibuti, all’imbocco di una delle strozzature geopolitiche più rilevanti del globo, Pechino è impegnata in una frenetica attività diplomatica per ottenere un accesso militare in diversi porti strategici, per poi negoziare la realizzazione di basi militari permanenti.
Spesso tale strategia è preceduta da massicci investimenti in infrastrutture portuali, quasi sempre con un duplice interesse commerciale e militare: una Via della Seta Marittima che corre dalla costa cinese verso sud, nel Mar Cinese Meridionale occupato illegalmente da Pechino; si estende nell’Oceano Pacifico centrale; attraversa lo stretto di Malacca; realizza la cosiddetta “String of Pearls”, quel “filo di perle” intorno all’India declinato dal controllo di porti strategici; fino ad affacciarsi agli Stretti di Hormuz e Bab el-Mandeb, sui i quali già incombe la minaccia dell’Iran, solido alleato del dragone nel Golfo.
Sta prendendo forma una strategia militare globale di Pechino fatta di una rete di porti, basi e installazioni che presto potrebbero trasformarsi in una minaccia per le democrazie asiatiche e per l’Occidente.
Si tratta di almeno sette progetti che disegnano nuova proiezione militare globale di Pechino nel Mar Cinese Meridionale in Pakistan, Sri Lanka, Cambogia, Myanmar, Emirati Arabi Uniti e alle Isole Salomone e Vanuatu nel Pacifico.
1. Mar Cinese Meridionale
La Repubblica Popolare Cinese rivendica la propria assoluta sovranità su questa gigantesca porzione di mare a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale quando venne adottata la dottrina delle “Nine Dash Lines” (la “Linea dei Nove Punti”), una sorta di illegittimo, quanto assurdo, lebensraum in salsa cinese: uno “spazio vitale” necessario per garantire l’espansione e il dominio economico e geopolitico di Pechino nel Sud-Est Asiatico negli anni a venire.
L’area rivendicata dalla Cina è più grande dell’intero bacino del Mar Mediterraneo e occupa le Zone Economiche Esclusive e le acque territoriali internazionalmente riconosciute di ben cinque paesi Asean: Vietnam, Filippine, Malaysia, Indonesia e Brunei. La profondità e la non legittimità delle rivendicazioni cinesi è evidente: è come se l’Italia un bel giorno rivendicasse come proprie acque territoriali un’area marittima estesa fino a poche miglia dalla costa di Tunisi, Tripoli, Alessandria, Tel Aviv e Beirut messe insieme. Il diritto internazionale dà torto a Pechino.
Il 12 luglio del 2016, la Corte Permanente di Arbitrato dell’Aja, nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (Unclos), si è pronunciata nettamente a favore delle Filippine, ritenendo le rivendicazioni marittime della Repubblica Popolare Cinese totalmente illegittime.
La Cina non ha riconosciuto il verdetto delle Nazioni Unite e ha proseguito nella costruzione di circa venti basi militari permanenti su atolli disabitati, di cui le più grandi sugli atolli di Mischief Reef, Fiery Reef, Suby e Woody Reef, vere e proprie “portaerei di corallo”, ancorate nelle acque territoriali di Vietnam, Filippine, Brunei e Indonesia.
2. Gwadar, Pakistan
Il porto di Gwadar nel Baluchistan pakistano è il terminale di uno dei progetti geopolitici più rilevanti di Pechino: il Corridoio Economico Cina-Pakistan (Cpec). È qui che molti analisti ritengono sorgerà la seconda base militare cinese fuori dalla madrepatria. Gwadar è già oggi un porto interamente cinese: finanziato e gestito da Pechino, e con la sicurezza gestita direttamente da contractor cinesi. La sua posizione, affacciata sullo Stretto di Hormuz e a soli cinquanta chilometri dal confine con l’Iran, è strategica.
Il Pakistan ha un indebitamento esterno verso la Cina di oltre ottantadue miliardi di dollari, e ha nella Cina il principale partner economico, politico e militare. La solidissima alleanza fra Cina e Pakistan è uno dei motivi di maggiore inquietudine a Delhi.
Il Sud del Pakistan è però attraversato da una forte instabilità legata alla popolazione del Beluchistan, una nazione senza Stato divisa fra Iran, Afghanistan e Pakistan. Accanto alle massicce manifestazioni popolari che hanno avuto luogo a Gwadar nella scorsa primavera, guidate dal Baluchistan National Movement e da altri gruppi, sono ripresi anche gli attentati contro forze di sicurezza, ingegneri e lavoratori cinesi. Si tratta di una guerra poco conosciuta alla Via della Seta che ha come duplice obiettivo la rivendicazione di uno Stato per i beluci e contemporaneamente la fine di ciò che è ritenuta essere una forte penetrazione “neo-coloniale” di Pechino.
3. Hambantota, Sri Lanka
Il porto di Hambantota nello Sri Lanka è considerato un caso da manuale della “diplomazia della trappola del debito”. Il presidente Mahinda Rajapaksa lanciò il progetto del nuovo Porto di Hambantota nel 2007 con un primo finanziamento della Exim Bank cinese. Il suo successore Maithripala Sirisena scoprì l’insostenibilità del debito contratto con Pechino e fu costretto nel 2017 ad avviare una “debt for equity swap”, cedendo per 1,4 miliardi di dollari e per novantanove anni il porto alla China Merchant Port Holdings. L’infrastruttura portuale che lo Sri Lanka aveva costruito grazie al prestito cinese è quindi finita direttamente in mani cinesi, suscitando una forte indignazione in tutto il paese. Il caso del porto di Hambantota ha suscitato allarme in molte cancellerie in Occidente alla luce dei rischi di “dual use” civile e militare delle infrastrutture portuarie.
La Cina possiede il cinquantadue per cento del debito bilaterale dello Sri Lanka, pari a 7,2 miliardi di dollari, e può facilmente usare la leva economica per ottenere altro dal paese, come dimostrano gli ulteriori investimenti nella capitale con il progetto di Colombo Port City, con un investimento totale di 1,6 miliardi di dollari da parte della China Harbour Engineering Company. Molte navi militari cinesi hanno già usato il porto di Hambantota come ancoraggio e per attività di manutenzione.
4. Ream, Cambogia
Prima con il regime ventennale di Hun Sen e ora con il governo guidato dal figlio Hun Manet, la Cambogia è sempre più uno Stato vassallo di Pechino e rappresenta un affaccio strategico per la Cina nel Golfo di Thailandia. Questo è il motivo per cui la Cina ha finanziato interamente la costruzione del porto e della base navale di Ream a pochi chilometri dalla città costiera di Sihanoukville, già oggetto di ingenti investimenti del dragone nel campo immobiliare e del gioco d’azzardo.
Nel maggio di quest’anno sono iniziate delle esercitazioni militari congiunte fra le due marine “Golden Dragon” e la presenza militare cinese nel porto di Ream è oramai una costante che garantisce a Pechino una proiezione militare ulteriore in supporto alle operazioni nel Mar Cinese Meridionale in competizione diretta con Filippine e Vietnam, nonché un ulteriore e rapido accesso allo strategico Stretto di Malacca fra Malaysia ed Indonesia, corridoio vitale fra gli oceani Pacifico e Indiano.
Come ha rilevato il Center for Strategic and International Studies (Csis) in un recente rapporto, il nuovo molo del porto di Ream inaugurato nel 2023 ha visto ancorate due corvette della marina cinese per molti mesi, che al momento sono state le uniche imbarcazioni a usare il nuovo porto. Lo stesso governo cambogiano ha confermato recentemente che la prolungata permanenza della marina cinese nel porto è stata legata a un progetto fra i due Paesi di formazione dei marinai della marina cambogiana.
5. Kayak Pyu, Myanmar
La Cina sta costruendo con un investimento di 7,3 miliardi di dollari un grande porto commerciale, con annesso parco industriale, a Kyaukpyu in Myanmar, nell’ambito della Belt and Road Initiative (Bri). Il porto Kyaukpyu offre alla Cina un accesso diretto al Golfo del Bengala, connettendo direttamente le province cinesi dello Yunnan con l’Oceano Indiano, superando la “strozzatura” dello Stretto di Malacca.
Un recente rapporto del think tank Asia Society Policy Institute (ASPI) ha denunciato il rischio di una crescente “militarizzazione” del progetto strategico della Via della Seta, e ha elencato fra i progetti con maggiore rischio di “dual use” civile e militare proprio il porto birmano di Kyaukpyu: la società concessionaria cinese che sta costruendo le infrastrutture portuali detiene il settanta per cento della proprietà e un lease di cinquant’anni, il tutto in una cornice di fortissimo indebitamento della giunta militare birmana nei confronti di Pechino, il cui debito ha raggiunto nel 2023 il quaranta per cento dell’intero Pil. A ciò va aggiunto l’investimento da 1,5 miliardi di dollari che Pechino sta realizzando per costruire il gasdotto che collegherà il porto birmano con la provincia dello Yunnanì, rendendo sempre più strategico per la Cina l’avamposto birmano di Kyaukpyu nell’Oceano Indiano.
6. Khalifa, Emirati Arabi Uniti
Nel 2018, la Cina ha ampliato la propria presenza marittima presso il porto Khalifa negli Emirati Arabi Uniti, collegamento strategico fra Asia, Africa, Europa e Medio Oriente. La società statale cinese Cosco Shipping ha costruito e gestisce un terminal per container commerciali nel porto e numerosi rapporti dell’intelligence statunitense ritengono che siano in fase avanzata i colloqui fra Pechino ed Abu Dhabi per l’apertura di una base militare cinese nel Golfo.
Ciò che rende gli Emirati Arabi Uniti diversi da Cambogia, Pakistan e Myanmar è il fatto che gli Emirati sono un alleato storico degli Stati Uniti. Dal 2002, la base aerea di Al Dhafra ha ospitato il 380th Air Expeditionary Wing dell’aeronautica militare statunitense e la base ha svolto un ruolo cruciale in tutte le missioni militari statunitensi Afghanistan, Iraq e Siria.
Nonostante le molteplici pressioni dell’Amministrazione Biden nei confronti del governo di Abu Dhabi, la possibilità che si riproduca un “modello Gibuti”, con basi militari di Stati Uniti e Cina a pochi chilometri una dall’altra, non è un più considerato impossibile.
7. Pacifico: Isole Salomone e Vanuatu
L’Accordo di Cooperazione in materia di Sicurezza siglato fra Xi Jinping e il premier Manasseh Sogavare nell’aprile 2022 rappresenta un salto di qualità della proiezione cinese nell’Oceano Pacifico. L’accordo rappresenta il primo vero successo della Global Security Initiative di Pechino, la versione “securitaria” della Via della Seta, e prevede una serie di attività congiunte nel campo della formazione dell’esercito e delle forze di polizia, l’utilizzo del porto di Honiara da parte della Marina di Pechino per rifornimenti e manutenzione, nonché forniture belliche al piccolo esercito insulare.
Ma un’ampia parte dell’accordo è stata secretata dal governo e, come temono molte cancellerie occidentali, prevede la possibilità di un intervento militare di Pechino in caso di nuove rivolte contro la minoranza cinese; la vendita di tecnologie per la repressione del dissenso; l’utilizzo molto esteso da parte dell’esercito di Pechino delle strutture militari del paese e una piena interoperabilità fra le forze armate cinesi e quelle delle Isole Salomone. Nella vicina Repubblica di Vanuatu, Pechino ha poi avviato una serie di ingenti investimenti nel nuovo porto di Luganville e nell’espansione dell’aeroporto di Bauerfild, poco distante dalla capitale Port Vila.
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