Riprendiamo da LIBERO di oggi, 14/11/2024, a pag. 14 con il titolo "Le scelte di Trump per un partito forte. E c'è anche Rubio" il commento di Giovanni Sallusti.
Giovanni Sallusti
Divorati dall’isteria della cronaca, rischiamo di perdere di vista la notizia destinata a durare: la strutturazione del trumpismo come assetto politico-culturale. Sono i giorni delle prime nomine di Trump, che diventano altrettanti lanci d’agenzia. I quali si possono copia&incollare con professionale pigrizia.Oppure, si possono comporre tra loro, si può vedere il puzzle, il cambio di paradigma che si fa sotto i nostri occhi.
In esordio, una certezza: non è come otto anni fa. Allora, un Trump inaspettatamente vincente mise insieme un team sicuramente di qualità, ma disomogeneo e spesso disallineato rispetto alla visione (a sua volta ancora in fieri) di The Donald. Oggi siamo allo scenario opposto: la squadra che il neopresidente sta costruendo rispecchia compiutamente l’anima del rinnovato Grand Old Party, il quale a sua volta è ormai irreversibilmente radicato in un blocco sociale egemone nell’America diffusa. Non è più (solo) il forgotten man accantonato dalla globalizzazione strabica voluta dall’oligarchia dem, è l’americano medio che sbandiera la realtà del suo portafoglio e della sua nazione contro l’ubriacatura Woke. Ed ecco, allora, il puzzle del trumpismo compiuto. A cominciare dalla coppia che incarna plasticamente l’evoluzione rispetto al primo mandato: Elon Musk e Vivek Ramaswamy alla guida del nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa. Con le parole presidenziali: “Spianeranno la strada per smantellare la burocrazia governativa, tagliare le normative eccessive e le spese inutili, ristrutturare le agenzie federali”. È l’aspetto reaganiano della nuova creatura “Maga” (che del resto fu anzitutto lo slogan della campagna di Ronnie nel 1980): l’assalto liberista alla Bestia del Deep State. Kristi Noem, governatrice del South Dakota, diventa Segretario della Sicurezza Interna, con doppia missione che è anche un asse del trumpismo: law and order all’interno e controllo delle frontiere esterne. La Noem viene dal Tea Party ed è una nemica irriducibile della retorica Lgbt: un percorso di conservatorismo anti-establishment che s’inserisce perfettamente nella nuova agenda.
C’è poi il piatto forte: nomi e storie che daranno corpo alla politica internazionale dell’amministrazione Trump. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale sarà Michale Waltz. Ex Berretto Verde pluridecorato, ha sempre indicato senza reticenze la sfida che il nuovo millennio pone all’America: quella della Cina comunista (ha più volte accusato Biden di «aver reso Pechino vincitore»). Per questo, intende chiudere il prima possibile la questione ucraina: per priorità geopolitica.
«Sarà un sostenitore della pace attraverso la forza», ha detto il Potus designato: trumpismo puro. Il vero effetto a sorpresa è il prossimo capo del Pentagono: Pete Hegseth, veterano delle guerre in Iraq e in Afghanistan, poi conduttore di successo su Fox News. È un critico serrato del Wokismo che si è insinuato anche dentro l’élite militare statunitense e dei Paesi europei «antiquati, senza armi, invasi e impotenti» che subappaltano la propria difesa Oltreoceano. Ma non è affatto un russofilo, anzi definì Putin «un criminale di guerra». Ancora più trumpista sarà l’ambasciatrice alle Nazioni Unite Elise Stefanik. Tra le prime e più convinte ad aderire al movimentismo Maga anche contro la vecchia classe dirigente repubblicana, ha più svolte sferzato «il marcio antisemita dell’Onu»: è una delle migliori amiche che poteva avere Israele, e una delle peggiori nemiche che poteva avere l’Iran. Marco Rubio invece, da ieri sera Segretario di Stato, rappresenta il richiamo all’eredità pre-trumpiana del Gop (sì, The Donald è molto più intelligentemente pragmatico di certi suoi tifosi troppo zelanti). Storico senatore repubblicano della Florida, ha radici nel neoconservatorismo e nel bushismo, ma a sua volta è stato molto più pragmatico di tanti colleghi: ha preso atto delle mutazione antropologica del partito, mantenendo l’intransigenza anti-cinese e anti-iraniana. Che è esattamente quel che interessava a Trump: rifare grande l’America significa anche ripristinarne la potenza e la capacità di deterrenza, senza sovra-esporla fuori casa, perché c’è anzitutto da ricostruire la casa, economicamente e fin emotivamente. Si chiama trumpismo, e sarà il caso di abituarsi.
Per inviare a Libero la propria opinione, telefonare: 02/99966200, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
lettere@liberoquotidiano.it