Riprendiamo da LIBERO di oggi 11/11/2024, a pag. 11, con il titolo "Quei rigurgiti del '68 violenti e intolleranti ", il commento di Corrado Ocone.
Corrado Ocone
Sono passati tanti anni dal Sessantotto, molti dei leader di quella stagione sono diventati parte dell’establishment ufficiale (spesso non perdendo vizi e arroganza del tempo), il comunismo non è più un ferro utilizzabile, eppure i cosiddetti “centri sociali” che nacquero allora sono ancora tanti e diffusi sul territorio nazionale, soprattutto nelle grandi città.
Né si può dire che il tempo li abbia trasformati più di tanto: le idee che vi circolano e il radicalismo estremistico che li caratterizza è sempre le stesso. E sfocia spesso in atti di violenza contro i nemici politici e soprattutto contro le forze dell’ordine.
Non è facile capire perché i centri sociali continuino a suscitare un certo fascino verso giovani più o meno sbandati e alla ricerca di una loro identità.
Non va tuttavia dimenticato che fra coloro che li animano non è difficile trovare anche qualche attempato protagonista della prima ora, sempre convinto che la rivoluzione sia ormai prossima e che lo “Stato borghese” stia per cadere sopraffatto dalle sue contraddizioni. Ecco, per capire come nacquero i primi centri sociali bisogna immergersi un po’ nel clima politico e sociale che caratterizzò gli anni Settanta. Si affacciava allora sulla scena una generazione di giovani che si sentiva insoddisfatta della società in cui viveva, che sognava utopisticamente un mondo diverso e pacificato, fatto di amore e giustizia sociale. Ma, come si sa, le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni.
IDEALI COMUNISTI
La particolarità del Sessantotto italiano fu quella di attingere i propri strumenti intellettuali nella vecchia bottega del comunismo, ma al di fuori dei luoghi canonici che se erano fatti interpreti. Quegli ideali sarebbero stati infatti traditi sia dall’Unione Sovietica, che si era trasformata in uno Stato dominato da una nomenklatura, sia dal Partito Comunista, che si era “imborghesito” e aveva rimandato ad un indefinito futuro il supamento del capitalismo e di tutte le strutture che reggono lo “stato borghese”. La convinzione di quegli anni era però che lo “Stato borghese non vada cambiato, ma abbattuto”.
ANTI-BORGHESI
In molti presero sul serio lo slogan ritenendo che il primo passo sulla via della rivoluzione fosse il “sabotaggio”. Dello “Stato borghese” non si riconoscevano né le consuetudini sociali né le leggi. Per il miltante infrangere queste ultime, espressione del “dominio di classe” della borghesia, era non solo lecito, ma un titolo d’onore. Nemici diventavano perciò, in primo luogo, i rappresentanti dello Stato e le forze dell’ordine impegnate a far rispettare le sue leggi.
Quanto alla violenza politica, che fosse praticata o no in prima persona, essa era ammessa e tollerata, considerata il necessario prezzo da pagare per prevenire le mosse dello “Stato repressivo” e per avvicinare la rivoluzione (la quale non poteva essere, come Marx aveva insegnato, un pranzo di gala).
Sarebbe un errore pensare che queste idee circolassero solo in una sparuta minoranza di giovani, fra gruppi o gruppuscoli della frammentata galassia sessantottina. Esse erano penetrate in una vasta area della società, a cominciare dal mondo intellettuale, ovviamente in diverse gradazioni e con vari distinguo.
Una diffusa “zona grigia” era costituita dai tanti che assumevano una posizione di “terzietà”: né con lo stato, né con i suoi nemici. Sempre in questo brodo di coltura emerse e prosperò anche il terrorismo rosso, che insaguinò tutti gli anni Settanta.
E in esso trovarono alimento i primi centri sociali. Essi vennero concepiti, in alternativa alle classiche sezioni di partito, come luoghi di vita, ricreazione, abitazione, alloggio. Si presentavano come “sacche di resistenza” e si ponevano come luogo di aggregazione ed elaborazione politica. Essi erano in sostanza delle “zone franche” in cui non avevano corso le comuni convenzioni borghesi; l’organizzazione verticale era sostituita dall’autogestione; le leggi vigenti, a cominciare da quelle che tutelavano la proprietà privata, non erano riconosciute. I centri sociali nascevano quasi sempre dall’occupazione abusiva di immobili di proprietà pubblica o privata, che venivano eufemisticamente chiamati “luoghi liberati”, mentre l’occupazione veniva definita “riappropriazione”. Negli anni Ottanta, con l’affacciarsi della cultura no global, i centri ebbero una nuova vitalità, ma in sostanza non hanno mai cessato di operare fino ad oggi, sempre ai margini della società. Nei loro confronti, il potere politico, soprattutto quello facente capo alle giunte di sinistra, ha sempre chiuso gli occhi procedendo raramente allo sgombero.
Da una parte, questa tolleranza è stata dettata dall’idea che i centri potessero essere lo sfogo delle pulsioni antisistemiche presenti nella società. In buona parte però essa è stata dettata dall’affermarsi di una retorica che li ha visti come fucine di elaborazione di una “controcultura” piena di fermenti vitali per la stessa cultura ufficiale. Illusioni che gli atti di violenza ed antisemitismo di questi giorni hanno dovrebbero contribuire a dissipare. È forse il giunto il momento di riaffermare il principio di legalità in queste zone franche, superando definitivamente quel doppiopesismo per cui l’illegalità di sinistra è un po’ meno illegale della (molto residuale) illegalità di destra.
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