Un nuovo Medio Oriente è possibile: le voci arabe che non ti aspetti 09/11/2024
Commento di Ilaria Myr
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Riprendiamo da BET Magazine di novembre 2024, a pag. 4/7, con il titolo "Un nuovo Medio Oriente è possibile: le voci arabe che non ti aspetti", il commento di Ilaria Myr.

Luai Ahmed, attivista yemenita pro-Israele

Elica Le Bon, artista e attivista iraniana pro-Israele

«Lo ammetto. Mi fa piangere di gioia ogni volta che Israele elimina un malvagio. Mi fa sperare che un giorno anche il mio popolo possa essere liberato dall’oppressione islamista. In un solo anno, Israele ha ridato speranza a milioni di persone. E per gli antisionisti occidentali che marciano a fianco dei gruppi pro-terrorismo: se solo capiste la nostra storia e la nostra lotta, vi rendereste conto che per 76 anni Israele è stata la vera Resistenza! Dando speranza alla maggioranza silenziosa senza voce! So che forse sto parlando nel vuoto, poiché le storie di coloro che non rientrano nella narrazione tradizionale spesso rimangono inascoltate, ma condividerò comunque questi pensieri. Israele il salvatore della regione? Forse sì». Questo è il post scritto dalla giovane Miss dell’Iraq Sarah Idan, ex Miss Universo, bella tra le belle. Siamo all’indomani dell’eliminazione di Yahia Sinwar, leader di Hamas e mente dei massacri del 7 ottobre. Ma non è la prima volta che Sarah Idan prende posizione accanto a Israele, contro la macchina del fango dei Paesi arabi: la sua immagine nell’abbraccio con Miss Israele di qualche anno fa le era valsa l’espulsione dall’Iraq, minacce e critiche, che perdurano fino a oggi.

La sua è solo una delle tante voci arabe e/o musulmane, o mediorientali, che da mesi si esprimono “contro”: contro il terrorismo jihadista e contro l’opinione mainstream molto diffusa in Occidente che Israele sia il “cattivone”, e Hamas e Hezbollah le pecorelle o meglio gli eroi, movimenti di “resistenza” in difesa degli oppressi. La lista dei nomi illustri rischia di essere davvero lunga: dallo scrittore algerino Boualem Sansal alla giornalista franco-tunisina Sonia Mabrouk, dalla scrittrice franco-iraniana Abnousse Shalmani allo scrittore algerino Kamel Daoud e alla sirio-libanese Rawan Osman, fino ad arrivare, in Italia, a Rayhane Tabrizi, nata nel 1979 a Teheran ma residente dal 2008 in Italia, tra le fondatrici dell’associazione Maanà, parola che in farsi significa “immortalità”. Un auspicio, affinché «la missione di informare sulla cancellazione dei diritti nella Repubblica islamica degli ayatollah non abbia mai fine».

Qui ci limiteremo a riportare alcune voci significative e seguitissime sui social network. Voci da dentro, outsider numerosi ma anche insider, gente che ha vissuto insieme alle proprie famiglie la privazione dei diritti laddove domina l’islam fanatico (ad esempio per chi si dichiara omosessuale), e che hanno deciso, a loro rischio e pericolo di dire come la pensano, quello che hanno visto e vissuto, mettendo in guardia da facili ma pericolose prese di posizione a difesa di chi nega le libertà fondamentali e inneggia alla distruzione di Israele. Per questo alcuni di loro hanno riunito le forze creando l’agenzia di stampa e informazione online “Builders of the Middle East” (40.000 follower su Instagram), che riporta le esperienze di chi vuol dire la sua e creare un Medio Oriente nuovo, senza estremismi e terrorismo, senza oppressione per le donne e minoranze, dove tutte religioni e popoli possano vivere in pace. Quello che colpisce nei loro contenuti è l’incredulità, lo sbigottimento davanti alle prese di posizione in Occidente, dettate da ignoranza e superficialità, che non tengono assolutamente conto di quello che è la vera realtà mediorientale, quella forma mentis che loro sì, invece, conoscono bene perché ne hanno fatto le spese, vissuta sulla propria pelle, vista con i propri occhi.

Luai Ahmed, uno yemenita “contro”

«Io avrei potuto tranquillamente essere uno di Hamas. Quella era la persona che ero stato educato a diventare. Quando è avvenuto il massacro del 7 ottobre, è stato drammatico. Ero smarrito, sotto choc. Non solo per gli innocenti trucidati, ma anche perché mi sono reso conto per la prima volta che l’Olocausto era davvero avvenuto (quando ero giovane mi dicevano che era una bufala, pura propaganda). Quando ho visto il massacro, la gente che applaudiva e che anche in Occidente celebravano l’assassinio di ebrei, qualcosa è scattato nella mia testa: improvvisamente ho realizzato quanto fosse profondo l’antisemitismo che esiste non solo dove sono nato io, ma anche in Europa e in Occidente. Sono stato in Israele due volte, ho imparato ad amare questo Paese e la sua gente. Per questo ho promesso a me stesso che qualcosa doveva cambiare: ho persino accettato di litigare con mia madre, tutti i giorni, perché lei odia Israele. E nonostante abbia perso molti amici, passerò il resto della mia vita a mostrare la verità su Israele e sul popolo ebraico ai miei follower musulmani».

A pronunciare queste parole è Luai Ahmed, un giovane yemenita nato a Sana’a nel 1993 naturalizzato svedese, che sui social media pubblica video che attirano migliaia di follower (144.000 su X, 75.000 su TikTok e 50.000 Instagram). Al centro dei suoi video, la condanna dell’ipocrisia del Medio Oriente, l’odio per gli ebrei che viene inoculato fin dalla giovane età, l’asservimento alla religione e il ritardo del mondo musulmano nel progresso sociale e tecnologico. «Mia madre è la persona più pro-palestinese che conosca, e non sa che sono qui – racconta quasi sottovoce in un video girato in vestiti tradizionali yemeniti durante il suo secondo viaggio in Israele -. Mio fratello non mi ha ancora sbloccato dall’ultima volta in cui sono venuto in Israele, ma io non sono venuto per difendere il governo o parlare di politica, sono venuto per scoprire il paese e conoscere la gente che ero stato educato a odiare. E sto imparando che Israele non è lo Stato di apartheid che si dice, che gli israeliani sono persone come me, gentili e ospitali. Qui incontrerò persone, arabi, ed ebrei, e parteciperò a un Pride per la prima volta in Medio Oriente!».

Elica Le Bon, attivista d’Iran

Un’altra voce potente è quella di Elica Le Bon, una giovane attivista e artista iraniana nata nel Regno Unito, che nei suoi seguitissimi post sui social (261.000 follower su Instagram, 113.000 su Tik Tok e 123.000 su X) parla del regime oppressivo dell’Iran, raccontando come anche la sua famiglia ne sia stata colpita – la madre, apolitica, fu imprigionata come “dissidente”, mentre uno zio fu impiccato per la stessa accusa – e criticando il jihadismo del regime e dei suoi proxy, primi fra tutti Hezbollah e Hamas. E lo fa prendendo apertamente la difesa di Israele come Stato democratico colpito sia nel sud il 7 ottobre, sia nel nord, dall’8 ottobre, da organizzazioni jihadiste il cui obiettivo è eliminarlo dalla faccia della terra. «Ricordiamoci che Hezbollah ha cominciato a lanciare più di 11.000 missili verso Israele. 96.000 persone nel nord di Israele sono state fatte sfollare, il 10% delle terre abitate in Israele sono ora disabitate – dichiara nel corso della trasmissione del giornalista britannico Piers Morgan Uncensored in risposta a un altro invitato che denunciava le “morti di civili e i crimini di guerra causate da Israele in Libano e in Gaza” -. E l’attacco mirato ai terroristi di Hezbollah, è stato attuato in risposta al piano di attaccare la Galilea del nord e di fare un nuovo 7 ottobre, con rapimento di ostaggi attraverso un’invasione di terra. Dire che Hezbollah agisce per difendere i palestinesi è scandaloso. La verità è che vogliono creare una seconda repubblica islamica in Libano e distruggere Israele». Qualche mese fa Elica Le Bon denunciava l’ipocrisia nei confronti del conflitto fra Israele e Hamas. «Quelli di Hamas non sono affatto oppressi, sono miliardari, e questa è una narrativa diffusa dalla propaganda del regime islamico iraniano che trova molto favore nella sinistra occidentale che si schiera dalla parte degli oppressi, indipendentemente dalle loro azioni. Tuttavia questo è pericoloso perché non c’è una linea rossa, un limite, alle azioni degli oppressi. Ma quanto lontano si può andare?».

Sono parole scomode quelle di Elica le Bon, che le hanno portato diffamazione e critiche nei suoi confronti, innescate dal regime islamico in Iran. Come ha spiegato in un lungo articolo pubblicato su Newsweek, prima è stata accusata di essere una spia del Mossad e della CIA, e quando questi rumors si sono spenti, si è cominciato a dire che era «segretamente israeliana, segretamente ebrea, segretamente sposata con un israeliano, che era la figlia segreta di Simon Le Bon, un ‘sionista furioso’». O ancora, che mentiva sul fatto di essere iraniana. O di avere parenti legati a varie agenzie di intelligence, al Mossad. «Tutto questo per erodere la mia reputazione di persona che dice la verità e di seminare dubbi sul mio lavoro, un lavoro che scredita pesantemente il regime».

Non solo: Elica dopo il 7 ottobre ha definito Hamas un movimento terrorista, e per questo molti amici le hanno voltato le spalle. Ma lei non demorde e sembra più motivata che mai nei suoi post e nei suoi interventi. «Come si fa a credere che tiranni che opprimono, torturano e uccidono arabi e musulmani nei loro Paesi, possano attaccare Israele per difendere i palestinesi? La ragione è l’antisemitismo, la più antica forma di bigotteria, che crea consenso fra la gente. Quindi se voi, antioccidentali, antimilitaristi, antisionisti, sostenete questi regimi, li state aiutando a opprimere il popolo iraniano e del Medio Oriente, e a rafforzare l’antisemitismo».

Dagli Emirati, l’analista Amjad Taha

«Avete osato colpire una nazione intelligente e coraggiosa il 7 ottobre, commettendo un genocidio, rapendo i loro figli e violentando le loro donne. Pensavate che sarebbero caduti, ma si sono rialzati, tornando dopo 11 mesi per correggere ciò che era sfuggito solo momentaneamente: la loro intelligenza. Ora, vi rimanderanno indietro di 1.000 anni, in un’epoca senza tecnologia, dove una suoneria sembra una campana a morto e un segnale acustico è un incubo. Sarete perseguitati dalla vostra stessa ombra, troppo spaventati per usare qualsiasi tecnologia, tagliati fuori dal mondo avanzato. E vi sconfiggeranno, non con proiettili o carri armati, ma attraverso la volontà indistruttibile di persone coraggiose e intelligenti. Con una semplice tazza di caffè, con un clic deciso, sigilleranno il vostro destino e il destino di chiunque osi fare del male ai loro figli. Questa è una nazione che il mondo rispetta. E in Libano: gli attacchi con i cercapersone di Hezbollah e l’attacco con i V82 non sono solo vittorie militari; rappresentano un trionfo del Medio Oriente sul radicalismo, una vittoria non solo per Israele, ma per tutti coloro che si oppongono al terrorismo».

Parole sferzanti e inequivocabili quelle di Amjad Taha, stratega politico e analista degli Emirati Arabi Uniti (500.000 follower su Instagram, 575.000 su X, 19.000 su TikTok), che conosce perfettamente il mondo arabo e musulmano (lui stesso veste in abiti tradizionali), sciabolate verbali contro i terroristi di Hamas, Hezbollah e tutte le forze che vogliono annientare lo Stato di Israele. «Hamas è cristallino, sono milizie terroristiche che hanno rapito un bambino di 8 mesi. In che battaglia ha combattuto questo neonato? Quando rapisci un bambino di 8 mesi insulti la causa palestinese, insulti gli arabi e insulti i musulmani. Per questo, gli arabi, i musulmani e il mondo devono condannarli e portarli a processo. Resistenti? Loro non hanno mai resistito», dice ancora in un’intervista a un canale tv arabo. Fieramente emiratino, nei suoi interventi in trasmissioni televisive, eventi e incontri nelle università americane, Taha vanta con orgoglio il valore della coesistenza nel suo paese, che nel 2020 ha siglato gli accordi per normalizzare i rapporti con Israele. «Vengo dal paese che ha preso la coraggiosa decisione di aderire agli accordi di Abramo – spiega in un ateneo americano -. Questo perché vogliamo un futuro migliore per il Medio Oriente. Il 7 di ottobre ho chiamato i membri della nostra comunità ebraica per sapere come stavano, ma quello che mi ha sorpreso è che mi hanno detto che erano preoccupati per le loro famiglie negli Stati Uniti e alcuni, che possedevano ristoranti a Londra, hanno subito attacchi. Noi non abbiamo tutto questo e non tolleriamo l’antisemitismo».

Jonathan e Myriam, un Libano libero

C’è anche Jonathan Elkhoury (21.100 follower su Instagram, 37.000 su X e 11.000 su Tik Tok), libanese naturalizzato israeliano, dichiaratamente parte della comunità Lgbtq+, che critica apertamente Hezbollah per avere distrutto il suo amato paese di origine. «Il giorno in cui Nasrallah è stato ucciso è stato uno dei giorni più belli nella storia del Libano – dichiara in un video reperibile su Instagram –. Sono israeliano, libanese, cristiano. Quando ero un bambino la mia famiglia ha dovuto lasciare il Libano, perché Nasrallah disse a mio padre che aveva tre opzioni: fuggire, essere incarcerato per essere torturato oppure essere ucciso. Questo perché mio padre credeva nella pace e nella coesistenza e collaborava con l’esercito israeliano nel combattere i terroristi in Libano (nelle milizie dell’esercito del sud del Libano, che combatteva contro l’Olp e Hezbollah, ndr). Ora che Nasrallah non c’è più, abbiamo una speranza. Ora è il momento per libanesi e israeliani di incontrarsi faccia a faccia, di stabilire relazioni normali fra i due paesi e vivere in pace». E ancora: «Il Segretario generale dell’Onu teme una prossima guerra in Libano? Ma dov’è stato per un intero anno? Hezbollah, l’esercito iraniano in Libano, ha dichiarato guerra a Israele già dall’8 ottobre del 2023, ha mandato 13.000 missili e droni iraniani ogni giorno sul suolo israeliano. E questa non è una violazione della sovranità israeliana e della sua integrità territoriale? L’Unifil avrebbe dovuto evitare che le truppe di Hezbollah usassero il sud del Libano per attaccare Israele; invece, hanno permesso loro di arrivare fino al confine. Il Segretario dell’Onu e Unifil non hanno fatto in modo di evitare una guerra. Ora Israele non permetterà loro di fermarlo».

Come Jonathan, anche Myriam Younnes ha dovuto lasciare il Libano. Anche lei è figlia di un comandante delle milizie dell’esercito del sud del Libano, si è trasferita in Israele quando era piccola, e oggi dichiara apertamente: «L’assassinio del leader di Hezbollah ha creato un’opportunità che abbiamo sempre sognato, ma che non avremmo mai pensato fosse possibile». Cresciuta in una piccola città del nord di Israele, Younnes spiega di trovarsi in una posizione unica per parlare di ciò che sta accadendo ora in Libano e in Israele. È fiera del suo paese d’adozione che l’ha “amata subito” dopo che lei e la sua famiglia sono arrivati come rifugiati nel Duemila. Ma desidera visitare di nuovo la sua patria, il Libano. Attualmente sta conseguendo un master in comunicazione politica presso l’Università Bar Ilan. Younnes è membro di Sharaka, una ONG il cui nome significa “partnership” in arabo, nata dopo gli Accordi di Abramo nel 2020.

Dalia Ziada, dall’Egitto agli Usa

«Io ero una studentessa e, come quelli nelle università USA, ero intrisa di narrativa pro-Pal. Finché ho capito: che cosa è davvero Israele, perché esiste e ho visto il pericolo di coloro che si nascondono dietro cause umanitarie e belle parole mentre sostengono Hamas. Da allora la mia mission è combattere contro Hamas e contro i Fratelli Musulmani. Fino al 7 ottobre 2023 c’era un sentimento diffuso nella regione contro gli islamisti, si cominciava a parlare di normalizzazione dei rapporti con Israele. Tutto stava andando nella giusta direzione. Fino al 7 ottobre. Quei massacri hanno dato agli islamisti politici l’occasione per dominare l’opinione pubblica e solo pochissime voci hanno avuto il coraggio di sfidarle. Io sono una di quelle, e per questo vivo sotto protezione fuori dal mio paese, non solo per le minacce degli islamisti, ma anche perché l’Egitto e altri Stati arabi hanno deciso di stare dalla parte di questi islamisti contro le voci liberali che rifiutano la loro narrativa. Io sono venuta in America pensando di avere lasciato ‘i cattivi’ dietro di me, ma ho scoperto che i cattivi sono già qui. Si tratta di un déja-vu, perché gli Stati Uniti sono un baluardo, per me incarnano i valori per i quali combatto da anni – diritti umani, diritti delle donne e democrazia – e non voglio vedere questi valori scomparire».

Chi pronuncia queste parole nei corridoi di un’università americana è Dalia Ziada, 42 anni, scrittrice egiziana, nota per aver svolto un ruolo centrale nel movimento della società civile che ha dato il via alla rivoluzione contro il regime di Mubarak, guadagnandosi la nomina della CNN come uno degli otto “agenti del cambiamento” in Medio Oriente e dal Daily Beast come una delle “donne più coraggiose del mondo” per due anni di fila. Ha studiato relazioni internazionali presso la Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University, è presidente del Liberal Democracy Institute (www.egyldi.org), che ha fondato, e direttore esecutivo del MEEM Center for Middle East and Eastern Mediterranean Studies. Inoltre, è membro del Comitato per gli affari esteri del Consiglio nazionale egiziano per le donne, e contribuisce regolarmente con analisi a importanti pubblicazioni regionali e internazionali su questioni legate alla geopolitica e alla politica di difesa in Medio Oriente, nel Mediterraneo e in Africa.
Dallo scoppio della guerra tra Hamas e Israele, seguita ai massacri del 7 ottobre, Ziada ha espresso un forte sostegno alle azioni militari di Israele contro Hamas. La sua posizione pubblica ha provocato notevoli reazioni in Egitto, con conseguenti minacce alla sua incolumità e accuse di spionaggio e incitamento a crimini di guerra. Per questo ha dovuto lasciare il Paese e vivere in clandestinità, ma, nonostante ciò, continua a pensarla allo stesso modo. «Sostengo pienamente ciò che Israele sta facendo per eliminare Hamas – ha dichiarato all’emittente israeliana Kan, sottolineando che la sua intenzione non era quella di incitare odio contro i palestinesi. – Al contrario, ogni goccia di sangue che viene versata, sia essa palestinese o israeliana, mi trova completamente contraria. Si tratta di cittadini che non hanno colpa di ciò che sta accadendo. Ma appoggio totalmente la guerra di Israele contro Hamas. Spero che l’esercito israeliano riesca a eliminarlo il prima possibile».

Dentro il mondo palestinese

Non mancano poi voci “contro” all’interno del mondo palestinese. Oltre a Joseph Haddad (di cui pubblichiamo l’intervista qui), uno dei più conosciuti è Bassem Eid (90.000 follower su Instagram, 41.000 su X, 2800 su TikTok), un attivista per la pace palestinese, giornalista e analista politico, che non perde occasione per denunciare la disinformazione, l’Iran, Hamas e Hezbollah, nonché contro le manifestazioni pro-Pal nelle università «che non aiutano noi palestinesi».
C’è poi Hamza Howidy, di Gaza (30.000 follower su Instagram), che per essere un attivista per la pace e contro il regime di Hamas (che l’ha mandato in prigione più volte per le sue posizioni) ha dovuto lasciare la Striscia, finendo in Germania, che condanna i massacri del 7 ottobre e chiede la fine della guerra e la pace fra i due popoli.

C’è poi Nuseir Yassin, conosciuto come Nas Daily, una vera “star” del web, con 4,4 milioni di follower su Instagram, 13,8 milioni su Youtube, che dopo il 7 di ottobre si definisce “israeliano e poi palestinese”. E infine c’è Mosab Hassan Yousef (44.000 follower su Instagram, 205.000 su X, 11.000 su TikTok), il “principe verde”, figlio di uno dei fondatori di Hamas che ha collaborato con i servizi segreti israeliani (la sua autobiografia è intitolata Il figlio di Hamas) e vive negli Stati Uniti. Le sue sono parole infuocate, durissime nei confro

nti di Hamas e di tutti coloro che descrivono il movimento come “resistenza”. Perché si dice resistenza, ma si intende in verità violenza, eliminazione, etnocidio.

 

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