Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/11/2024, a pag. 14, l'analisi di Anna Zafesova dal titolo "Zelensky punta su Donald. L'ultimo disperato tentativo per salvare Kiev dai russi".
Quello che se ne è andato è un «ordine mondiale fondato sulle regole», una «ossessione dei democratici»: per quanto possa suonare strano che sia proprio un ministero degli Esteri a gioire per la fine di un mondo di regole, la reazione della diplomazia russa è la constatazione di un terremoto politico. Che rischia di inghiottire soprattutto Kyiv, e infatti Volodymyr Zelensky, da sempre legato all'amministrazione democratica, al punto da essere stato accusato da critici in casa di aver messo tutte le uova nello stesso paniere, è tra i primi leader a congratularsi per la vittoria di Donald Trump. E lo fa con toni entusiasti, parlando di «vittoria impressionante», ricordando il «favoloso incontro» con l'allora candidato repubblicano due mesi fa, e auspicando «Stati Uniti forti sotto la guida decisa di Trump».
Una retorica che chiaramente punta a ingraziarsi l'uomo dal quale ora potrebbe dipendere la sopravvivenza dell'Ucraina. Del resto, molti a Kyiv sono frustrati ed esasperati per l'indecisione dell'amministrazione Biden negli ultimi mesi, e il capogruppo del partito presidenziale "Servo del popolo" alla Rada David Arakhamia – uno dei negoziatori con la Russia allo scoppio dell'invasione su larga scala - spera in una «dinamica nuova, nonostante i molti problemi». Politico aveva citato collaboratori della presidenza ucraina secondo i quali Zelensky scommetteva anche sulle sue affinità con Trump come due leader arrivati in politica dallo spettacolo e dal business. Una chance esile, considerato che il magnate repubblicano ha più volte commentato l'Ucraina in termini molto sprezzanti, definendo il suo presidente «il più grande mercante della storia» e dandogli la colpa dell'invasione russa. Soltanto pochi giorni prima delle elezioni Trump aveva dichiarato che «l'Ucraina non esiste più», parole che suonano come una campana a morto per gli ucraini.
I vari "piani di pace" usciti dall'entourage trumpiano parlano di un "congelamento" del conflitto lungo la linea del fronte e di concessioni che Kyiv dovrebbe fare sotto la minaccia di una interruzione degli aiuti. Al di là della promessa di Trump di «far finire la guerra in 24 ore», gli ucraini ricordano il blocco degli aiuti militari organizzato all'inizio dell'anno dai trumpiani, e costato mesi di stallo, e migliaia di vite di ucraini. Probabilmente Zelensky è nella lista dei personaggi di cui il presidente neoeletto vorrebbe vendicarsi, per la telefonata del 2019 in cui gli aveva chiesto di incriminare Hunter Biden: trapelata nei media, aprì l'Ukrainegate, costato a Trump un tentativo di impeachment. Quando Zelensky oggi plaude all'idea di Trump di portare la "pace con la forza" sembra un tentativo disperato di salvare il suo Paese: è vero che negli ultimi mesi gli alleati europei (oggi Zelensky sarà a Budapest per il vertice europeo) e della Nato hanno costruito per Kyiv una rete di sicurezza di accordi e impegni di assistenza per i prossimi anni, ma senza gli aiuti militari americani, e senza la solidarietà politica di Washington, contenere l'avanzata di Putin sarà difficile.
Né si capisce perché la Russia dovrebbe fermarsi se Washington le spiana la strada, e infatti il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ammonisce che «la guerra non si può fermare in un giorno». In un curioso gioco di specchi, russi e ucraini rispondono entrambi picche all'idea di una "pax trumpiana". Ma mentre Zelensky non perde la speranza di fermare la potenziale mannaia di Trump, quella Mosca che tutti credono immediata beneficiaria dell'arrivo di The Donald si mostra molto prudente. Il sito Vyorstka sostiene che Putin, Dmitry Medvedev e i presidenti delle due camere del parlamento russo abbiano inviato messaggi di congratulazioni a Trump di nascosto, «attraverso conoscenti comuni», ma a livello ufficiale il Cremlino tace, e Peskov dice di «non essere a conoscenza» dell'intenzione del suo principale di contattare il nuovo capo della Casa Bianca. «Ricordo che l'America resta un Paese ostile» aggiunge, frenando l'entusiasmo di molti propagandisti russi che esultano se non per la vittoria dei repubblicani almeno per la sconfitta dei democratici. Rispetto al 2016, quando alla Duma si brindava champagne per la vittoria di Trump, Mosca resta cauta, e il ministero degli Esteri russo afferma di «non nutrire illusioni rispetto al presidente eletto, ben conosciuto in Russia», e sostiene che la «linea antirussa degli Usa non è soggetta alle oscillazioni del barometro politico interno».
Paradossalmente, proprio Putin potrebbe diventare l'ostacolo principale a una "pax trumpiana". L'antiamericanismo è ormai da più di dieci anni il perno della sua politica, e da Washington non vuole soltanto due regioni ucraine già in buona parte occupate, ma "Make Russia great again" nella sfida all'eterno nemico Usa. «Il Putin di oggi non è quello del 2016», dice un funzionario anonimo del Cremlino a Meduza, «e non vuole concedere più nulla». La guerra ormai è diventata il motore della politica e dell'economia russa, e anche se Putin può sperare in un'intesa con Trump - che «in fondo è più simile a noi», dice un'altra fonte del governo moscovita a Meduza, e suona come un complimento - non si può dire lo stesso degli alleati russi, l'Iran e soprattutto la Cina, primi bersagli della nuova amministrazione. E mentre da Kursk arrivano le testimonianze dei primi militari nordcoreani uccisi, The Donald rischia di scoprire che questa guerra potrebbe essere una faccenda troppo complicata per chiuderla «in 24 ore» sacrificando l'Ucraina a Putin.
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