Riprendiamo da LIBERO di oggi, 07/11/2024, a pag. 12, con il titolo "Il futuro del Medio Oriente: Arabia ok, Iran alle corde", la cronaca di Amedeo Ardenza.
Chi non si preoccupa troppo sono gli emiratini: già lo scorso settembre, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, il presidente degli EAU Mohamed bin Zayed avevano organizzato incontri tanto con la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris quanto con il candidato repubblicano Donald Trump. Non tutto il Medio Oriente però prende la rielezione dell’ex presidente con la stessa nonchalance della ricca federazione dei sette emirati. Ieri mattina, per esempio, se ne sono accorti gli israeliani colpiti da una pericolosa salva di missili piombata dal Libano sul centro del Paese. Altri stati del Golfo più grandi o più importanti degli EAU non sono rimasti indifferenti alla scelta operata dagli elettori americani.
Per Mohammad bin Salman, principe ereditario e uomo forte di Riad l’uscita di scena dell’amministrazione democratica rappresenta la fine di due incubi: uno personale e uno strategico. Sotto il profilo strategico Donald Trump è passato alla storia come il presidente che ha silurato il Jpcoa, ossia l’accordo sul nucleare iraniano che era stato garantito da Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Germania e dagli Stati Uniti di Barack Obama. In quel no al nucleare civile, Riad aveva letto il no repubblicano a una possibile (e rischiosissima per sauditi e israeliani), trasformazione dell’Iran in un paese dotato dell’arma atomica. Sotto il profilo personale, MbS sarà poi lieto di dare l’addio al presidente Joe Biden e alla sua amministrazione democratica che non gli hanno mai perdonato la crudele eliminazione del giornalista e dissidente Jamal Kashoggi, smembrato in un consolato saudita a Istanbul su ordine, come sembra, dello stesso MbS. Una fine atroce che ha raggelato le relazioni fra Riad e la Casa Bianca a trazione Dem: l’esatto contrario di quanto aveva fatto Trump che nel maggio del 2017 scelse Riad quale prima tappa di una tournée che lo portò poi in Israele, nei Territori, in Italia, in Vaticano e poi ancora a Taormina per partecipare al G7.
Il problema dei sauditi, semmai, è un altro: Trump ha lanciato gli Accordi di Abramo invitando Israele e i paesi del Golfo a normalizzare i propri rapporti non per sottolineare l’importanza della regione ma per segnalare al contrario che l’America non considerava più strategico il Medio Oriente. Prima di ritirarsi per occuparsi invece del contenimento della Cina, lo zio Sam consigliava agli attori in campo di unire le proprie forze contro l’Iran e i suoi alleati. La riprova? Quando nel 2019 gli Huthi armati da Teheran hanno attaccati i pozzi petroliferi di Aramco in Arabia Saudita, lo stesso Trump ha ignorato la richiesta di aiuto di Teheran. Il disegno degli Accordi di Abramo è riuscito solo a metà: gli Huthi non sono sconfitti, e l’Iran continua a dare le carte nella regione: e per il tramite di Hamas, Teheran ha scatenato la guerra il 7 ottobre 2023 proprio per impedire a MbS di normalizzare i rapporti con l’odiata “entità sionista”.
La solidarietà interaraba, ampiamente di facciata, ha reso impossibile firmare un accordo con Israele mentre questo bombarda i palestinesi.
La speranza ora dei sauditi e con loro degli israeliani è che gli Usa tornino a farsi vivi nella regione. Riad ci spera perché pur avendo comprato tante armi dagli americani ha dimostrato di non saper contenere neppure gli Huthi. Israele, dal canto suo, è riuscito a recuperare parte della deterrenza nei confronti dell’Iran ma non sembra avere i numeri per riuscire a rovesciare il regime degli ayatollah. E comunque l’idea trumpiana che la Cina si contiene altrove ha lasciato mano libera a Pechino nel Golfo: il recente ingresso degli EAU, Egitto e Iran nei Brics dimostra che non c’è regione al mondo di cui gli Usa si possano disinteressare se intendono mantenere lo status di prima superpotenza globale.
E la Turchia? Anche il grande paese mediorientale, partner della Nato con il secondo più grande esercito nell’alleanza atlantica, ha fatto domanda di entrare nei Brics: d’altronde in quel gruppo economico spicca la Russia di Putin, dirimpettaia della Turchia di Recep Tayyip Erdogan sul Mar Nero. Agli Usa questa traiettoria non piace: lo ha detto apertamente l’ambasciatore ad Ankara Jeff Flake, un repubblicano scelto da Joe Biden per curare i rapporti con Erdogan. A Trump, fra qualche mese, il compito di far cambiare idea al sultano.
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