Riprendiamo da LIBERO di oggi, 07/11/2024, a pag. 1/20 con il titolo "Attaccatevi al ciuffo" l'editoriale di Mario Sechi.
Mario Sechi
Quando nel 2016 comparve l’uomo con il cappellino rosso, l’establishment guardò il soggetto con accigliato disprezzo: che cosa vuole questo palazzinaro americano?
Come si permette di invadere il campo di Washington, torni a giocare a golf nei suoi club. Dopo un primo tour di comizi, mi fu chiaro che sulla scena politica stava arrivando un’onda anomala destinata diventare il new normal, un altro immaginario. E a quel punto, il vostro cronista a domanda rispose: «Vince Trump». Così fu e per quattro anni, dal 2016 al 2020 (due guerre fa in meno, dettagli che sfuggono), The Donald ha confermato di essere sopra e sotto le righe, il miglior alleato e il peggior nemico di se stesso, un improvvisatore e un negoziatore metodico, il prigioniero libero. La sua caduta nel 2020 del coronavirus fu il pasticciaccio di condizioni eccezionali e irripetibili, l’elezione di un democratico che faceva campagna dal suo scantinato, Biden. La rivolta di Capitol Hill una macchia di guerra incivile.
Qualcuno pensò che la sua storia fosse finita,in realtà era appena cominciata. Lo vollero ancora in pista per primi i democratici, che soffiando sulla magistratura si adoperavano per creare l’avversario ideale per il vecchio Joe, Trump. Pensavano di batterlo. Che illusione ottica, nello spazio di un dibattito naufragò sugli scogli. E dal cilindro di Barack Obama, il grande perdente di questo voto, spuntò Lei, Kamala Harris. È stata travolta dall’uomo del destino, Trump.
Il suo grande ritorno alla Casa Bianca, un’impresa storica, è il timbro dello spirito del tempo, l’America è trumpiana nella pancia e nella testa, nello stomaco e nel cervello, ha vinto la sfida nell’electoral college e messo a segno un colpo di cannone con il voto popolare, tremenda, inesorabile, mirabile vittoria e... ora attaccatevi al ciuffo. Sergio Marchionne, dopo averlo incontrato alla Casa Bianca con gli altri manager dell’auto americana, lo fotografò in quattro parole da Polaroid: «È un game changer». Flash, Trump. “E ora che cosa succede?”, si chiedono i circoli colti. Cambia tutto, caballeros. Al tavolo da gioco c’è di nuovo lui, Trump. L’Europa, questa entità di cui Henry Kissinger cercava invano il numero di telefono, è in bambola. Oddio i dazi (che ci sono già, l’America nasce con la politica delle tariffe), signora mia la Nato (della quale facciamo parte, lasciando agli americani il benedetto lavoro sporco), cielo la Cina (che ci ha fregato la manifattura), mamma il cambiamento climatico (mentre il condizionatore è a palla), cribbio la pace in Ucraina (una preghiera per San Pentagono), ostrega come fermiamo Israele (mentre Ali Khamenei prega accarezzando il fucile). Il compagno Lenin si chiederebbe, che fare? Mesi fa, a Roma, Javier Milei, mentre rivolgeva un premuroso pensiero alla motosega sempre accesa a Buenos Aires, mi disse: «Dobbiamo costruire l’internazionale della destra, un coordinamento, come ha fatto la sinistra». Il presidente dell’Argentina è un’altra sagoma trattata con altezzosa sufficienza dai saputi dei media progressisti, ma in quella frase c’è un’intuizione, un pezzo di futuro. Non si può ricostruire il sistema delle relazioni internazionali con forum pensati per reggere i pilastri di un’altra epoca. Gli Stati Uniti, dopo un immane conflitto, presero per mano il mondo e dopo il 1945 crearono nuove organizzazioni intergovernative: tra il 1944 e il 1951 furono siglati gli accordi di Bretton Woods, create le Nazioni Unite, la Nato, il trattato di sicurezza tra Giappone e America e altre alleanze in Asia. La pace non è una parola, sono istituzioni che funzionano.
Quest'ordine è durato finché la Guerra Fredda gli ha dato uno scopo ideale, con il crollo del Muro la missione è finita dentro un banco di nebbia. All’Occidente serve un nuovo ordine, un’uscita di sicurezza rapida da un modello socialista che sta facendo crac di fronte ai gol di rapina delle autocrazie, alle incursioni corazzate delle dittature, al disegno esplicito dei Brics putiniani di fare e soprattutto disfare il nostro mondo. Il coordinamento dei governi conservatori, tra personalità diverse (e interessi spesso divergenti) non è impresa da fast food, ma senza l’America nessuno può sopravvivere al meccanismo di auto-distruzione della manifattura nelle economie avanzate. Wall Street è il sismografo del cambio di scena, il Dow Jones guadagna 1300 punti in una seduta, il dollaro decolla, mentre le piazze europee vanno in rosso. È il libro degli ordini del «Trump trade» che si va riempiendo, un compra e vendi sul progetto di dazi e tagli di tasse.
Trump lo vedi all’orizzonte, sulla mietitrebbia dell’Ohio, tra i campi di girasole del Missouri, accompagnato dal lattaio del Wisconsin, con l’operaio del Michigan e della Pennsylvania. Ha recuperato «l’uomo dimenticato» di Franklin Delano Roosevelt, sono le pagine di vita scartavetrata di William Faulkner che votano.
Working class e America rurale, è la tavola degli elementi che impagina il Wall Street Journal per ricordare come ha vinto l’uomo del Maga. Il muro blu dei democratici è crollato a colpi di chiave inglese e aratro, tra il ranch e il grattacielo, al galoppo dei cavalli selvaggi, tutto nello spazio di un proiettile che gli ha morso un orecchio. Amato, odiato, è il colpo di vento maestoso che spinge le baleniere di Nantucket, siamo a bordo del Pequod, dentro la storia di una caccia infinita, è Melville, la potenza del romanzo americano. Dov’è Moby Dick? Si è inabissata, no, eccola che ricompare sul Lago Michigan. Che storia, The Donald. L’ho seguito da vicino e lontano, otto anni pazzi, dondolando sulle pianure del Tennessee, a Nashville, diluendo gli appunti con il Jack Daniel’s, perdendomi là dove i coccodrilli ti scrutano mentre ti tagliano la strada, nell’amata Florida, da Miami a Palm Beach, imbucato a Mar-a-Lago tra velluti e stucchi del suo club, calpestando erba, mangiando polvere, inalando asfalto, nell’ascesi verticale di vetro e acciaio, affondando le unghie nella «palude» di Washington, in un inverno fortificato del nostro scontento, dove ogni nome è guerra e pace. Ora respiriamo, guardiamo avanti, America.
Per inviare a Libero la propria opinione, telefonare: 02/99966200, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
lettere@liberoquotidiano.it