Riprendiamo da LIBERO di oggi 07/11/2024, a pag. 20, con il titolo "E' il naufragio mediatico dei super-esperti. Tifavano Kamala e ora spiegano la sua disfatta", l'editoriale di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
È ovvio che la carriera politica di Kamala Harris sia finita ieri. Ed è per lo meno probabile, dopo questo spettacolare naufragio, che perfino gli strapotenti clan Obama e Clinton avranno un po’ meno voce in capitolo rispetto al difficilissimo futuro che si prospetta per i democratici.
Ma – prima e peggio di costoro – sono altri che dovrebbero sgombrare il campo, al di qua e al di là dell’Atlantico: prendersi qualche turno di riposo, scusarsi, o almeno (nei casi purtroppo non frequenti di onestà intellettuale) dedicarsi a una riflessione profonda, a un autoesame non banale.
Mi riferisco – con rare eccezioni – a un intero sistema mediatico scritto e televisivo: direttori, editorialisti, inviati, commentatori, faccioni ormai impresentabili, con borioso e pomposo contorno di analisti ed “esperti”. Che – a essere gentili – non ci hanno capito una mazza. E – a essere meno garbati – hanno provato per mesi e fino all’ultimo a ingannare lettori e telespettatori.
Fino a giugno, senza vergogna e contro ogni evidenza, ci descrivevano un Joe Biden lucidissimo e pimpante, pure quando vagava nei prati, o salutava amici immaginari, o cercava di sedersi su sedie inesistenti. Ma loro – si direbbe a Oxford: con una totale intercambiabilità tra faccia e culo – ci raccontavano che era fichissimo e fortissimo, al suo meglio, un grande capo del mondo libero.
Poi, una volta che la macchina dem decise di rottamare Biden dopo il catastrofico faccia a faccia con Trump, i nostri propagandisti si sono affrettati a portare Kamala Harris in processione come una madonna pellegrina. Incuranti del suo fiasco quadriennale come vicepresidente, delle sue risate incongrue e sguaiate, delle sue gaffes, hanno preso a descriverla come una santa, come la donna che avrebbe trascinato il popolo e mostrato nientemeno che la senilità e il rincoglionimento di Trump.
Non basta ancora. Dopo un attentato (quasi due) contro Trump, i nostri campioni dell’informazione hanno cercato di occultare e far dimenticare quell’omicidio tentato (e per poco non riuscito), tentando perfino di colpevolizzarne la vittima, al grido di: «Se l’è cercata», «È lui che ha arroventato il clima», e altre balle simili. Insomma, se gli hanno sparato, era colpa sua.
E non finisce qui. Da agosto a oggi, ci hanno martellato con la presunta efficacia della campagna Harris (il “rimbalzo” nei sondaggi, il “momentum”, e altre cazzate sempre con l’obiettivo di manipolare e ingannare). Contemporaneamente, ogni giorno montavano e pompavano un “caso Trump”: i processi, la riemersione di vecchie storie, l’immagine ripetuta ossessivamente di un fascista stupratore (odi uno stupratore fascista: cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia). Ogni giorno fango per lui, e petali di rosa per Kamala.
Rimane poi indimenticabile il caravanserraglio di vipponi, artisti e reperti hollywoodiani spacciati come carte vincenti pro Kamala: ora sappiamo che non solo non hanno portato consenso, ma hanno fatto perdere voti. Del resto, è sufficiente mettersi nei panni di una famiglia americana di ceto medio o medio basso, schiantata dalla crisi economica, impaurita per l’immigrazione fuori controllo, e che poi vedeva in tv una parata di star milionarie sdottoreggiare pretendendo di spiegare al popolo cosa pensare e cosa votare. Il rigetto e il “vaffa” sono stati pressoché automatici e istantanei.
E infine è rimasto aperto e attivissimo fino all’ultimo il circo dei sondaggi, amorevolmente allestito con l’aiuto non solo degli istituti demoscopici, ma anche degli immancabili “fact-checker”, più analisti e esperti di complemento. Risultato? Ci hanno imposto per settimane il racconto di un “testa a testa”, di una “corsa sul filo del rasoio”, quando poi, come si è visto, Trump ha stravinto a valanga, con distacchi abissali che era impossibile non percepire.
Avevano calcolato tutto, come al solito. Salvo dimenticare un “dettaglio”, e cioè gli elettori, il popolo, la gente reale.
Si tratta del consueto errore, ripetuto qui in Italia per vent’anni contro Berlusconi: gli avversari danno selvaggiamente la caccia all’Uomo Nero, stavolta al Nemico Arancione, dimenticando che – dietro o a fianco o avanti rispetto a quel presunto demonio – c’è un popolo che può anche non identificarsi del tutto con il suo leader, ma che detesta il plotone di maestrini progressisti che pretenderebbero di imporre cosa dire e perfino cosa pensare per essere ammessi in società. È finita, game over. A quei ballisti non crede più nessuno. Se avessero dignità, si dedicherebbero - almeno per qualche tempo - ad altro, ammettendo di non aver capito niente.
Ps: E invece conosciamo già la prossima puntata, la giravolta delle prossime ventiquattr’ore. Non solo non se ne andranno, ma, appena smaltito lo schiaffone preso, si ripresenteranno in tv con le facce e la spocchia di sempre a dire che “loro l’avevano detto”, che “Kamala non poteva farcela”, che “si sapeva già”. Da qui li mettiamo in guardia: non ci provino. Lettori e telespettatori non sono né scemi né smemorati.
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