Riprendiamo da LIBERO del 04/11/2024, a pag. 13, con il titolo "L'eroica iraniana che sfida il regime. E le femministe mute" l'analisi di Claudia Osmetti.
Claudia Osmetti
“Una di meno”, nella fattispecie chi scrive: perché, ragazze, c’è chi s’è stufata. Chi oramai è infastidita, anzi disgustata; non ne può più di ciò che spacciano per “femminismo” e, invece, è la peggiore propaganda ideologica a senso unico. Quella che si straccia le vesti per le morti di Gaza e alza le spalle di fronte alle donne ebree massacrate e violentate e sventrate nei kibbutz il 7 ottobre. Che si costerna s’indigna s’impegna per difendere il velo islamico, qui, in Occidente, dove è già una libertà indossarlo oppure o no, e non organizza una mezza fiaccolata, un quarto di manifestazione, un briciolo di corteo per Saman e tutte le altre che ancora muoiono, al contrario, per il sacrosanto diritto a un paio di jeans. Che ha dimenticato le sorelle afgane e quelle iraniane. “Una di meno”, sì, perché è arrivato il momento di prendere le distanze: estraniarci, chiamarci fuori anche da questo linguaggio onnicomprensivo che ci dipinge come un’entità unica in marcia all’unisono per il solo fatto che portiamo il reggiseno. No.
Non è così. C’è chi, con questo moderno movimento femminil-femminista, non vuole più avere nemmeno un’ombra da spartire.
E alle piazze piccate, con gli striscioni (sempre uguali) e gli slogan (idem) ripetuti a pappagallo, gli stessi berciati a Parigi e a New York e a Milano, cioè nel nostro mondo sicuro in cui, alla fine, si rischia poco o niente, preferisce il coraggio vero, autentico, della studentessa in mutande che cammina nel cortile dell’università Azad di Teheran. Senza hijab ma anche senza vestiti, con solo la biancheria intima a righe, seduta sugli scalini, in bella mostra, per protesta (si fanno così, le proteste).
Fuori dal dipartimento di Scienza e ricerca, dopo che la polizia morale basij degli intoccabili (per le nostre femministe) ayatollah l’ha aggredita perché non s’è coperta in maniera appropriata i lunghi e bellissimi capelli neri. Magari le sbucava un ciuffo ribelle dalle pieghe del chador, vai a sapere: che scandalo. Mentre attorno le passano donne bardate dalla testa ai piedi, con l’abito nero che non lascia intravedere le forme. Qualcuna le parla, molte fingono di ignorarla.
E lei lì. Lo sguardo serio. Le braccia incrociate sul petto a mo’ di sfida. Sola come probabilmente neanche immagina di essere perché sì, qualcuno la riprende col cellulare e il video fa il giro del pianeta, su intente, sui social; però no, non c’è un collettivo, non c’è un gruppo, non c’è una sezione di una dannata lega per i diritti delle donne che alzi il dito (non per dissentire ma) per dedicarle un post sui social, quando degli agenti si avvicinano, l’arrestano, la picchiano e la trascinano a forza dentro un’auto e poi chissà.
Così come non ci sono state rivoluzioni (da noi) per Mahsa Amini: tuttalpiù qualche sforbiciata di capelli in diretta televisiva o davanti ai propri follower di Instagram (cioè sempre a favor di telecamera) nell’ottobre del 2022, cosa che era persino diventata popolare, diciamo alla stregua di una moda, ti lavavi la coscienza e passavi oltre. Oltre Nika Shakarami (uccisa anche lei dalle guardie della rivoluzione e il cui nome non è scandito da nessun sit-in fuori dall’ambasciata iraniana di nessun Paese europeo o nordamericano) oltre Armita Geravand (lo stesso), oltre Aida Rostami (la dottoressa di Teheran torturata a morte dai pasdaran perché aveva osato curare i manifestanti che nella sua città protestavano contro il regime teocratico).
Blaterano di «resistenza», femministe e pacifisti alla bisogna. Ma la vera resistenza è quella di Mahsa e di Nika e di Armita e di Aida e dell’eroica ragazza in mutante ma (ancora) senza nome fuori dal suo ateneo, in un Iran dove il cambiamento è davvero possibile proprio perché esistono le Mahsa e le Nika e le Armita e le Aida e quei meravigliosi giovani persiani che all’indomani del 7 ottobre, piuttosto che calpestare l’enorme bandiera israeliana che le autorità avevano steso davanti al rettorato, procedevano saltellando sui bordi. Tutto questo, però, il femminismo all’Annie Ernaux non lo vede. Peggio, non gli interessa.
Per inviare a Libero la propria opinione, telefonare: 02/99966200, oppure cliccare sulla e-mail sottostante
lettere@liberoquotidiano.it