Anus Mundi
Cinque anni ad Auschwitz-Birkenau Wieslaw Kielar
Traduzione dal polacco di Alessandro Pugliese
Prefazione di Wlodek Goldkorn
Giuntina Euro 22
In tutto il mondo il campo di concentramento di Auschwitz è noto, grazie alle testimonianze dei pochi ebrei sopravvissuti, prima di tutto come luogo di sterminio del popolo ebraico, simbolo della Shoah. Tuttavia, anche per i Polacchi esso rappresenta il luogo del martirio della propria gente: il progetto criminale di Hitler (“La Polonia sarà svuotata della sua popolazione e verrà ripopolata dai tedeschi” aveva affermato il dittatore tedesco nel 1939) era chiaro e prevedeva lo sterminio degli ebrei ma anche la liquidazione dei polacchi, degli zingari, dei prigionieri di guerra sovietici e in generale di tutte quelle persone sospettate di essere legate ai movimenti di resistenza in Polonia, uomini e donne che i tedeschi consideravano pericolose e quindi da eliminare.
Alcuni anni fa abbiamo recensito su queste pagine il bel volume “Le lettere da Auschwitz di Janusz Pogonowski” (Zane editrice), un giovane polacco di 18 anni militante in una formazione clandestina che, arrestato dalla Gestapo e condotto nel carcere di Tarnow, fu trasferito il 14 giugno 1940 con un convoglio di 728 persone nel campo di concentramento da poco aperto ad Auschwitz. Se di Janusz ci rimangono solo le lettere che spedì dal campo alla famiglia fino al 1943 (l’ultima scritta pochi mesi prima di essere ucciso) di Wieslaw Kielar, un polacco di ventun anni legato alla Resistenza e anch’egli su quel convoglio, disponiamo di un documento eccezionale: la sconvolgente testimonianza dei cinque anni che trascorse nei campi di morte nazisti, scritta partire dagli anni ’60 e pubblicata nel 1972.
Questo testo, considerato ancora oggi una delle testimonianze più impressionanti sul sistema concentrazionario nazista, arriva in Italia nell’efficace traduzione di Alessandro Pugliese grazie alla casa editrice Giuntina con il titolo Anus Mundi (espressione con cui Heinz Thilo, medico delle SS trasferito nel luglio 1942 ad Auschwitz, definiva il campo di concentramento).
Arrestato a Jaroslaw, sua città natale, nel maggio 1940 e imprigionato come detenuto politico insieme ad altre persone nel carcere di Tarnow, Kielar arriva ad Auschwitz-Birkenau il 14 giugno 1940; qui è privato di ogni identità e diventa il numero 290 (Pogonowski invece era il numero 253).
Da questo momento e per cinque anni inizia per Kielar una discesa in un inferno umano inimmaginabile, un deserto dell’anima che non conosce eguali. E’ una lotta estenuante per sopravvivere al terrore, alle malattie, al sadismo dei kapo’, al potere di vita e di morte che le SS agiscono nei confronti dei detenuti, in un confronto quotidiano con la fame e le epidemie che decimano i prigionieri già debilitati dal lavoro forzato e dalla denutrizione.
Impara la difficile arte di restare vivo nel campo ma rischia di essere sopraffatto ogni giorno perché la morte può arrivare nel modo più insospettabile. Sopravvive a un’epidemia di tifo e ancora molto debole scampa, grazie alla solidarietà di alcuni compagni, alla selezione per le camere a gas.
Per circa novanta capitoli il lettore è gettato in un mondo di abiezione e disperazione perché Wieslaw Kielar racconta con un linguaggio diretto e crudo, senza risparmiare alcun dettaglio, la brutalità quotidiana, le vessazioni, la crudeltà delle guardie che non ha un perché, le umiliazioni, la corruzione che – scrive Goldkorn nella prefazione - “era comune e diffusa, e per molte guardie e SS Auschwitz era una miniera d’oro…” ma anche il cambiamento fisico e psichico che subiscono i prigionieri come conseguenza delle violenze inflitte e insieme alla disperazione si insinua il desiderio di porre fine alla propria esistenza.
Kielar che nel campo svolge diversi lavori - infermiere, portatore di cadaveri, muratore, falegname, installatore, caposquadra - è consapevole dei suoi “privilegi” in quanto prigioniero anziano ed esperto nelle tecniche di sopravvivenza e se può aiuta i più deboli, coloro che si sono trasformati in “musulmani”, rivolgendo uno sguardo empatico e solidale agli ebrei polacchi, francesi o greci che nel progetto di Hitler sono i primi ad essere destinati allo sterminio. Guardando un gruppo di donne ebree scrive: “Avevo visto
migliaia di cadaveri, un numero incalcolabile di musulmani; ero riuscito ad abituarmi alla loro vista, ma queste creature morenti, malate, affamate, sporche mi fecero un’impressione spaventosa. Guardarle era raccapricciante”.
Passando da un campo all’altro – nel 1944 è trasferito a Neuengamme, poi deportato nel sottocampo di Porta Westfalica-Barkhausen fino ad arrivare nella primavera del 1945 nel campo di Wobbelin dove il 2 maggio è liberato dalle truppe americane – Wieslaw Kielar è protagonista o testimone di violenze e massacri, incontra anime indurite o indifferenti al dolore dei compagni, ma anche gesti di solidarietà che illuminano, anche se solo per un attimo, il buio di quelle esistenze. Nascono amicizie e a volte amori appassionati come quello fra Edek, polacco cattolico e grande amico di Wieslaw e la giovane Mala, un’ebrea nata in Polonia, emigrata in Belgio e da lì deportata. Fuggiti insieme nella primavera del 1944 furono catturati e la loro delicata storia d’amore ebbe un esito drammatico.
Una volta liberato dagli americani in Germania Kielar ricostruisce la sua vita con un lavoro nel cinema, una moglie, una cerchia di amici ma ad un certo punto sente l’urgenza di lasciare una testimonianza scritta di quanto ha vissuto e ci consegna questo libro potente che sa parlare alla Storia e al cuore perché racconta di uomini che sono riusciti a resistere al male anche grazie al pensiero di poter trasmettere ai vivi la loro storia, vincendo per sempre l’oblio.
Anus Mundi non ha pretese letterarie né intenti pedagogici ma è un testo di valore storico e documentale che affianca e completa le opere più famose della letteratura concentrazionaria sulla Shoah.
E in un periodo, poi, in cui revisionismo e negazionismo si diffondono con pericolose prospettive di ridimensionamento o banalizzazione di ciò che è accaduto nei campi di sterminio nazisti, di cui Auschwitz resta la massima e insuperata espressione, ci sembra che alle nuove generazioni si debba proporre come efficace antidoto la “conoscenza” sì dei luoghi, ma prima di tutto delle storie, dei documenti e dei racconti dei testimoni oculari sopravvissuti.
Di Giorgia Greco