Riprendiamo da LIBERO del 28/10/2024, a pag. 9, con il titolo "Cellule radicali nelle nostre città, con l'assenso dei finti pacifisti" la cronaca di Claudia Osmetti.
Claudia Osmetti
«Dal fiume al mare».
La “resistenza” palestinese. E poi quei cortei, magari anche solo ignoranti (quindi in buona fede), nel senso che ignorano la storia e anche l’attualità, che su Gaza e Gerusalemme hanno una visione distorta perché sono vittime della propaganda e non dell’informazione. Slogan, manifestazioni che qui, in Occidente, trovano spazio perché il dissenso fa parte della nostra libertà e noi non siamo disposti a rinunciarci, alla libertà, nemmeno quando sentiamo sbrodolare sciocchezze da un palco o nel rettorato di un’università occupata. Però anche il rischio, concreto, vero, reale, che ciò che una volta era indifferenza e adesso è diventato proselitismo domani possa tramutarsi in qualcosa di pure peggio. Forse esasperazione, estremizzazione. Violenza. E non altrove, cioè nel Mediorente che queste piazze, piene di giovani italiani, di antagonisti italiani, di militanti (guarda caso per lo più di una parte politica soltanto, quella sinistra) italiani, pensano sia lontano come la Cina di Marco Polo, ma nelle nostre città. Nei nostri quartieri. Dentro le nostre case.
Ce lo ricorda (e non è la prima volta) la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) Noemi Di Segni. Sul bavero della giacca il nastro giallo per gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, è il giorno del lutto nazionale, in Israele, per quella carneficina del 7 ottobre 2023 che ha cambiato ogni cosa.
«Ancora una volta ci appelliamo alla consapevolezza collettiva che la guerra di Israele al terrorismo su otto fronti, adiacenti e lontani, riguarda anche la reale minaccia, qui nelle nostre città europee, di cellule di radicalizzazione», dice Di Segni.
Cellule che potrebbero essere «favorite dal placet di alcune forze politiche», dalla «distorsione mediatica quotidiana e dei falsi pacifisti, con l’illusoria adesione a slogan di annientamento e rimozione dell’orrore, prima della Shoah e in questo lungo anno delle torture subite» in quel pogrom da kristallnacht a Be’eri e Ofakim e Urim e nel Negev.
L’abbiamo scritto sui post di Facebook ogni 27 gennaio, lo abbiamo ripetuto a ogni passaggio in tivù di Shindler’s list, come se fosse un monito che riguardava altri: epperò quel “mai più” ha lasciato il posto a ragazzi che per strada sventolano la bandiera palestinese e che la pace la chiedono a Netanyahu e a senso unico, che anzi inneggiano alla «leggenda di Sinwar» (è successo sul serio, sabato scorso, a Milano), che disegnano la kefiah sulle foto di Anna Frank, che bruciano la stella di David come facevano i nazisti di Himmler e che recitano con la litania di un rosario motti imparati a pappagallo sull’apartheid e sul terrorismo e su un genocidio che è sconfessato anche dai numeri (nei primi 105 giorni del conflitto, nella Striscia, sono nati, non morti: nati, circa 20mila bambini: venire al mondo sotto le bombe non è di certo edificante, ma il “genocidio” è un’altra faccenda).
Tutto questo, e la facilità con cui ce lo siamo ritrovati attorno, di pericoli ne trascina appresso almeno due. Il primo è quello di una coscienza collettiva sempre meno informata e sempre più ideologizzata, coi pacifisti che in fondo sono qualcos’altro e con l’antisemitismo che oramai (purtroppo) si sta sdoganando. Il secondo rischio, Di Segni ha perfettamente ragione, è quello di non essere più sicuri a casa nostra. Gli ebrei di Milano, quelli di Roma, quelli di Berlino e quelli di Bruxelles sono mesi che denunciano aggressioni e intimidazioni. In Canada e in Francia le sinagoghe hanno subito attacchi, negli atenei si vieta a chi porta la kippah di parlare, scritte antisemite sono comparse sui muri di qualsiasi cittadina da Oslo in giù.
Non è un allarmismo da quattro soldi (l’Olocausto è iniziato esattamente con le stesse premesse, ignoranza e indifferenza), è un’analisi puntuale di quello che sta succedendo. “Radicalizzazione”, per usare le parole di Di Segni, vuol dire fondamentalismo, terrorismo islamico, attentati. Vuol dire Samuel Paty e Charlie Hebdo, il Bataclan, Nizza, i tre palestinesi delle “Brigate Tulkarem” arrestati a L’Aquila a marzo per eversione dell’ordine democratico, gli attacchi sventati (fortunatamente) in Germania e Danimarca a dicembre che avrebbero colpito anche i non-ebrei. E che i vari leader della sinistra, come Schelin o Conte o Fratoianni o tutti quelli che non perdono occasione per unirsi alla frangia dei manifestanti contro (contro Israele e basta), non se ne siano ancora resi conto, non fa preoccupare di meno.
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