Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 21/10/2024, il commento di Pascal Bruckner, pubblicato sul City Journal e tradotto da Giulio Meotti dal titolo "L’ossessione per i sionisti".
Nel 1974, lo scrittore Jean Genet, una celebrità indiscussa della sinistra francese, le cui opere esaltano la bellezza dei teppisti, degli assassini, delle Pantere Nere, delle SS e dei Fedayn di Yasser Arafat, spiegò il suo attaccamento alla causa palestinese: ‘Per me era del tutto naturale favorire non solo i più svantaggiati, ma anche coloro che distillano l’odio per l’Occidente in modo più puro’”. Con questa frase si apre un saggio di Pascal Bruckner sul City Journal. “Per decenni, i palestinesi, o meglio, una visione mitica dei palestinesi, hanno riunito due elementi essenziali per questa distillazione: erano poveri, in contrasto con i presunti colonizzatori, che arrivarono in parte dall’Europa (sebbene un milione di ebrei cacciati dai paesi arabi, a partire dal 1948, divennero israeliani); ed erano musulmani, cioè membri di una religione che alcuni a sinistra considerano la punta di diamante dei diseredati. Così, durante un periodo in cui gli orizzonti rivoluzionari di sinistra si stavano oscurando, un certo progressismo orfano si è fatto carico della rivolta palestinese contro Israele. Sorprendentemente, tuttavia, ciò che è nato come una preferenza di minoranza si è sviluppato in una posizione di maggioranza, ottenendo un sostegno significativo dai più alti ranghi del potere politico e dall’accademia, sia in Europa che negli Stati Uniti, e rimodellando la mentalità di un’epoca. Lo straordinario grado di copertura mediatica dedicata al conflitto esemplifica questo cambiamento. È come se il destino del pianeta si stesse svolgendo in un piccolo fazzoletto di terra tra Tel Aviv, Ramallah e Gaza. L’attenzione dei media tende a trasmettere poche informazioni accurate, ma si accontenta di rafforzare uno stereotipo: il confronto tra ciò che è considerato uno stato razzista e coloniale, un ritardatario nel mondo arabo; e un popolo schiacciato e spossessato. La diffusa ignoranza su questa regione del mondo, lungi dall’essere un handicap, è una risorsa: non c’è bisogno di sapere, ad esempio, a quale fiume si fa riferimento nello slogan palestinese ‘dal fiume al mare’, poiché il punto è la Giustizia, con la G maiuscola. Per quanto riguarda il sostegno occidentale ai palestinesi, ci troviamo nel regno delle idee pure, delle astrazioni, non degli esseri umani in carne e ossa. Intellettuali, studenti e politici guardano a questa costa orientale del Mediterraneo meno per indagare su uno specifico antagonismo, una causa immobiliare tra due proprietari terrieri con rivendicazioni storiche, che per riparare un torto contro la cultura occidentale. Il destino effettivo di milioni di uomini e donne sottoposti a umiliazioni quotidiane e a condizioni di vita precarie, governati da un’Autorità Nazionale Palestinese corrotta e, a Gaza, da Hamas, un gruppo terroristico, sembra avere poca importanza. Il Medio Oriente è diventato il luogo di una contesa globale per il titolo di vittima, un titolo che deve essere strappato ai discendenti della Shoah. Già nel 1969, un settimanale francese della sinistra cattolica, Témoignage Chrétien, affermava: ‘Gesù Cristo è con i palestinesi’. Uno stretto collaboratore di Yasser Arafat disse qualcosa di simile nel 2002, rivolgendosi all’Occidente: ‘I palestinesi sono sottoposti ogni giorno alle stesse sofferenze che Gesù ha sopportato sulla croce’. Un simile linguaggio è solo un residuo di un’epoca più inebriante? Chiaramente no. Ciò che è accaduto nei campus universitari, sia nel Vecchio che nel Nuovo Mondo, dopo il massacro di israeliani da parte di Hamas il 7 ottobre 2023 e la successiva risposta militare di Israele a Gaza, dimostra che l’antisemitismo, il correlato dell’antisionismo, ha trovato nuovo carburante per esprimersi e svilupparsi. Nel frattempo, le speranze di moderare il conflitto israelo-palestinese sono state infrante e le questioni regionali sono diventate più intrattabili. Due interessi convergono nella passione per Gaza che è esplosa dall’ottobre scorso. In primo luogo, consente all’Iran e ai suoi delegati in Libano, Siria, Gaza e Yemen di trasformare Gerusalemme in una comoda distrazione dalle loro miserie, e di mettersi a capo della resistenza del mondo musulmano all’entità sionista. Come ha detto con malizia il re del Marocco Hassan II: ‘Il rifiuto di Israele è l’afrodisiaco più potente dei musulmani’. In secondo luogo, in Europa, la condanna di Israele, un tema costante dei ministeri degli esteri, aiuta a fornire una catarsi collettiva, presumibilmente scagionando le nazioni dai crimini passati contro gli ebrei. Questo è un esempio di vittimologia inversa, come se i lontani discendenti degli ebrei espulsi dalle loro terre d’origine europee fossero ora equivalenti ai carnefici che hanno gasato i loro antenati. Il termine ‘sionista’, usato da molti a sinistra in Europa oggi, significava già infamia nella propaganda bolscevica. ‘Sionista’, che è diventato un insulto, ha riscosso un grande successo come parola anche nel mondo arabo-musulmano. Ma questa grande differenza esiste: la nuova giudeofobia si esprime tipicamente in nome dell’antirazzismo. Rifiuta qualsiasi paragone con le disgustose dottrine degli anni 30 e afferma persino di combattere l’antisemitismo, ma condanna gli ebrei (scusatemi, i ‘sionisti’) in nome dell’umanità. Il presunto altruismo, in Francia come in America, consente ora di stilare liste di ‘sionisti’ da smascherare e stigmatizzare nel cinema, nella musica, nei media, nella politica e negli affari come complici dello ‘stato genocida’ di Israele. Il punto non è minimizzare la tragedia palestinese o evitare le critiche alle decisioni dell’attuale primo ministro israeliano o rifiutare l’idea di un accordo politico tra israeliani e palestinesi; ma è vero che l’ossessione per questo particolare conflitto è impressionante. Nell’ultimo quarto di secolo, Israele è stato accusato, tra le altre cose, del riscaldamento globale, della caduta di Wall Street, delle morti nello tsunami asiatico del 2004, delle caricature su Charlie Hebdo che fanno infuriare i musulmani e, più di recente, lo scorso autunno, di una tempesta mortale in Libia che gli uffici meteorologici hanno battezzato ‘Daniele’ e che il presidente tunisino Kaïs Saied ha attribuito al movimento sionista internazionale. ‘Sionismo, il Dna criminale dell’umanità’, era un grido udito nelle strade di Parigi durante la guerra in Libano nel luglio 2006. ‘Sionismo = nazismo’ era lo slogan scritto su un muro all’Università della California-Berkeley nel maggio 2024. Senza Israele, ci viene detto, il mondo starebbe meglio, poiché il paese ci mette tutti in pericolo. Una scena ai cancelli della Columbia University all’inizio di maggio ci dice tutto ciò che dobbiamo sapere: i dimostranti (non tutti studenti) cantano e urlano: ‘Al-Qassam, rendici orgogliosi, uccidi un altro soldato ora... brucia Tel Aviv fino alle fondamenta. Hamas, ti amiamo, sosteniamo anche i tuoi razzi... Israele, vai all’inferno’. Le brigate Al Qassam, vale la pena ricordarlo, sono state istituite nel 1991 in nome di un combattente anticolonialista siriano, Izz ad-Din al-Qassam (1882-1935). Sono il ramo armato di Hamas. Questo attivismo pro-palestinese ha avuto un precedente nel ventesimo secolo, quando l’estrema sinistra, avendo perso l’URSS, la classe operaia e la Cina, ha abbracciato per la prima volta l’idolatria dell’Islam. L’entusiasmo neo-coranico dei credenti perduti nel marxismo ha costretto gli attivisti a contorsioni ideologiche riguardanti i diritti di gay, donne e altri gruppi, e tali contraddizioni sono evidenti nelle attuali proteste. Si vede lo slogan ‘Queers per Hamas’ sui muri di Parigi e New York, e ci si chiede: questi attivisti Lgbtq sanno che, sotto un governo islamista, verrebbero (nella migliore delle ipotesi) picchiati e imprigionati, o (peggio) uccisi, magari scaraventati giù dai tetti degli edifici? L’Islam radicale è diventato l’ultima grande narrazione politica di sinistra, sostituendo il comunismo e il terzomondismo. Nella categoria del buon soggetto rivoluzionario, lo shaheed, il jihadista, il martire di Hamas o di al Qaida sostituisce il proletario, il guerrigliero, il bolscevico. Gli adepti della Mezzaluna porteranno la Rivoluzione. Fu Michel Foucault (sostenuto brevemente da un Jean-Paul Sartre anziano e malato) ad aprire questa partita, con il suo caratteristico entusiasmo. Foucault aveva da poco fondato, sotto gli auspici del Corriere della Serra, un comitato di intellettuali (me compreso) per indagare sui cambiamenti nel mondo. Foucault partì per l’Iran, con entusiasmo; non essendo mai stato marxista, era alla ricerca di qualche nuovo brivido, di una sovversione spirituale che avrebbe reso obsoleto il vecchio anti-imperialismo. La fede mobilita le masse meglio di qualsiasi ingenua speranza nell’avvento del socialismo; Foucault trovò a Teheran la rinascita, in un contesto islamico, della predicazione di Girolamo Savonarola e di Thomas Munzer, che equivaleva a una ‘spiritualità politica’. Trasportato dal suo nuovo ardore, Foucault celebrò incessantemente questi insorti portatori di un potenziale messianico. L’ayatollah Khomeini fu caratterizzato dal filosofo come il ‘vecchio santo esiliato a Parigi’. Alla fine, Foucault avrebbe visto le sue speranze sconfitte dall’evoluzione del regime e dalla sua imposizione di una repressione spietata. La visione distorta di Foucault anticipava quella dei giovani di oggi, indignati per i bombardamenti israeliani di Gaza. Un leader studentesco della Columbia, Khymani James, citato dal New York Times, proclama: ‘I sionisti non meritano di vivere’. L’8 marzo, Giornata internazionale dei diritti delle donne, le femministe francesi, che volevano manifestare insieme ad altri attivisti per richiamare l’attenzione sugli stupri e gli omicidi perpetrati da Hamas il 7 ottobre, sono state denunciate come fasciste da agitatori che indossavano la kefiah. E un altro paradosso sembra sfuggire agli attivisti: il doppio standard che governa la loro scelta esclusiva di difendere i palestinesi e la loro negligenza nei confronti, ad esempio, degli uiguri, dei rohingya, dei curdi, degli yazidi e dei sudanesi, che sono vittime in corso della guerra civile (con già più di 100.000 morti a Khartoum). Apparentemente, per questi manifestanti occidentali, la vita di un africano vale infinitamente meno di quella di un palestinese. E questa vita palestinese apparentemente ha valore solo se presa da un israeliano. Ora sappiamo anche questo: la necessaria risoluzione del problema israelopalestinese non garantirà la pace di Israele, così come non calmerà le passioni dei crociati del Profeta, in guerra con i miscredenti, i tiepidi e i kaffir dell’Occidente. Dobbiamo perseguire questa giusta causa, ma senza illusioni”.
(Traduzione di Giulio Meotti)
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