Riprendiamo da LIBERO di oggi 18/10/2024, a pag. 10, con il titolo "I compagni vogliono riscrivere la storia di Enrico Berlinguer", l'editoriale di Daniele Capezzone.
Daniele Capezzone
I comunisti (ex, neo e post) non cambiano mai: impiegati inconsapevoli (e talora perfino in buona fede: e in questo caso non si tratta di un complimento) del “ministero della verità” lucidamente immaginato da Orwell, sono impegnati notte e giorno a riscrivere, a correggere, a modellare il passato in modo che sia funzionale alla propaganda del presente.
E il guaio è che (per distrazione? per malintesa cortesia? per subalternità culturale?) nei loro trucchi casca spesso anche la destra, accettando o curando di non smascherare con troppa durezza queste continue manipolazioni.
L’ultima? Alla Festa del cinema di Roma, tra ovazioni per Gaza e sfilata sul red carpet dei vipponi rossi-rosé-fucsia, è stata presentata l’ennesima cine-agiografia su Enrico Berlinguer (“Berlinguer, la grande ambizione”, per la regia di Andrea Segre) come Libero vi ha già anticipato ieri. Con due tocchi orwelliani su cui occorre tornare: presentare il capo del Pci italiano nientemeno che come un antisovietico e come un socialdemocratico. Ora, con il rispetto che si deve a una figura sicuramente nobile e tormentata della politica italiana, questa doppia favoletta non sta né in cielo né in terra.
Sul primo fronte, il film insiste sul trauma (vero) dell’attentato fallito contro a Berlinguer a Sofia e sul suo tentativo di costruire un percorso meno ortodosso rispetto al modello sovietico. In questa chiave, da sempre, gli apologeti di Berlinguer amano ricordare la celebre intervista concessa a Giampaolo Pansa nel 1976 in cui il capo del Pci ammise di sentirsi «più sicuro» sotto l’ombrello della Nato. Dichiarazione indubbiamente significativa. Peccato che anche dopo quell’intervista, Berlinguer restò ben collocato in tutt’altra orbita. Il rapporto con Mosca e il Pcus rimase ben saldo (finanziamenti inclusi) per molti anni ancora, e i comunisti italiani continuarono ad abbracciarsi con Brez nev.
E – si badi bene – non si trattava di una condanna, ma di una ben precisa scelta, che altri, con lungimiranza e coraggio ben maggiori, avevano potentemente avversato. Già nel 1977, ad esempio, nel quadro del grande rinnovamento craxiano dei socialisti, Carlo Ripa di Meana – da direttore della Biennale – era stato artefice di un’edizione dedicata al dissenso d’oltrecortina, tema peraltro già ampiamente arato dai radicali di Marco Pannella.
Non solo. Ancora nel 1981, nel momento decisivo in cui si trattò di installare in Italia gli euromissili (a Comiso, in provincia di Ragusa), marcando una deterrenza forte verso Mosca e un rapporto più stretto con gli Usa e chiamando tutti a una scelta di campo tra Occidente e Patto di Varsavia, il Pci si scatenò contro, facendo di Giovanni Spadolini, Francesco Cossiga e ancora Craxi altrettanti bersagli.
E qui si apre il tema della seconda manipolazione, quella di un Berlinguer descritto come una sorta di “socialdemocratico” o “socialista”.
È vero esattamente il contrario: il più odiato dalla cerchia berlingueriana (da Antonio Tatò a Franco Rodano, fino alle generazioni più giovani: Achille Occhetto, Massimo D’Alema, Walter Veltroni) è sempre stato proprio Bettino Craxi, cioè l’uomo che aveva sfidato e politicamente battuto il Pci, rifiutando lo schema di un socialismo italiano subalterno alle due grandi “chiese”, la comunista e la democristiana.
Craxi, che governò con il pentapartito ma rimase un uomo di sinistra, fino alla fine sperò (osi illuse) che potesse ricrearsi, almeno dopo il crollo del Muro, una unità socialista a guida riformista. E, come dono generoso, favorì l’ingresso degli ex comunisti nell’Internazionale socialista. Ne ricavò solo e sempre odio, in vita e post mortem, un mix di dannazione morale e persecuzione giudiziaria. Ma aveva ragione lui (e torto loro) su tutto.
Che ora, nel 2024, si cerchi di accreditare una visione riformista e socialdemocratica del vecchio Pci è - insieme - un mistificazione e una beffa. Dal mantra dell’austerità fino alla battaglia (perdente) sulla scala mobile, dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta, il Pci berlingueriano, anziché interpretare le esigenze di dinamismo e modernizzazione del paese, si arroccò su una linea economicamente pauperista, segnata da un mix di ideologia e immobilismo.
Resta allora l’ultimo “refugium peccatorum”: evocare la “questione morale” posta da Berlinguer. È l’ora di dire, rompendo un altro tabù, che pure quella fu un’escogitazione politica due volte errata. Errata tatticamente, perché ritrasse il Pci da una possibile nuova e diversa politica delle alleanze, arroccandolo su una posizione identitaria basata su una pretesa di diversità etica (peraltro infondata: visto il finanziamento da Mosca e quello del sistema delle cooperative). Ed errata anche strategicamente, perché rappresentò il terreno su cui sarebbe cresciuto il giustizialismo degli anni successivi: con il tentativo di abbattere per via giudiziaria gli avversari che non si era riusciti a sconfiggere sul terreno politico-elettorale.
E allora rassegnatevi, cari compagni: avevate torto allora, e aveva politicamente torto anche Enrico Berlinguer, che oggi usate come santone o come santino. Non era né l’una né l’altra cosa: era un politico certamente da rispettare, da studiare, ma soprattutto da criticare. Non aveva ragione né rispetto alla collocazione internazionale né in economia, e sarebbe l’ora di prenderne atto.
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