Il terrorista assetato di sangue era ‘l’architetto’ del 7 ottobre. Morto nella fuga da vigliacco
Commento di Fiamma Nirenstein
Testata: Il Giornale
Data: 18/10/2024
Pagina: 2
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: Il terrorista assetato di sangue era ‘l’architetto’ del 7 ottobre. Morto nella fuga da vigliacco

Riprendiamo dal GIORNALE di oggi 18/10/2024 a pag. 2 il commento di Fiamma Nirenstein con il titolo: "Il terrorista assetato di sangue era ‘l’architetto’ del 7 ottobre. Morto nella fuga da vigliacco".


Fiamma Nirenstein

Il corpo di Yahya Sinwar fra le macerie, dopo l'ultimo scontro a fuoco. Ucciso a Rafah (sì, proprio la città dove si voleva impedire a Israele di entrare) il capo supremo di Hamas, architetto del 7 Ottobre.

Il soldato che scavava fra le pietre dell’edificio di Rafah (dove per lunghi mesi all’Idf era stato proibito di entrare) dopo che a sua Brigata l’aveva distrutta con successo scoprendovi all’interno terroristi e armi, ha detto proprio così: «Wow! Questo somiglia a Sinwar». E lo era. Che sorpresa, che orgoglio per i soldati. Il macellaio del 7 ottobre, il sanguinario fanatico capo di Hamas che ha scavalcato i limiti del male conosciuto nel nostro secolo coi suoi piani e i suoi ordini disegnando l’attacco, ha fatto anche lui il suo errore, come Nasrallah. La sua ora è venuta non in una delle gallerie, scoperto dai servizi segreti circondato dai poveri rapiti un anno fa, ma beccato per caso carico di soldi e passaporti falsi probabilmente mentre voleva scappare dallo Tzir Filadelfi come un vigliacco. Nella foto un gruppetto di soldati guarda stupefatto il corpo seminascosto di Sinwar, chissà con quale orgoglio riescono a pensare a come proprio loro, in questa pagina di storia, hanno messo fine alla vita del topo di gallerie, responsabile dei bimbi decapitati, delle famiglie bruciate, delle ragazze violentate e uccise, dei sei ragazzini fucilati poche settimane fa all’imbocco della galleria.

Quei ragazzi hanno verificato con sollievo senza fine che neppure uno dei rapiti era là a coprire Sinwar. È morto tenendoli nascosti senza scambiarli, spavaldo e sicuro di se stesso, bruciante d’odio per gli ebrei fino al punto di uscire all’aria aperta sicuro di vincere, dopo aver portato l’inferno su Israele e anche sul suo popolo, usato come scudo umano della sua folle ideologia e dei suoi assassini, ben riparati nelle gallerie costruite coi miliardi ricevuti dall’Iran e dal Qatar e dall’aiuto umanitario di tutto il mondo. Sinwar aveva promesso di liberare tutti i prigionieri palestinesi quando nel 2011, condannato a quattro ergastoli, era uscito nello scambio Shalit: non gli è riuscito. Tornato a casa guarito da un cancro al cervello curato da Israele, con la conoscenza profonda della società israeliana così da sfruttarne rotture e debolezze, e con la decisione a usare qualsiasi mezzo per uccidere gli ebrei e distruggere loro Paese.

Prima di tutto, sotto di lui si stringe il rapporto con l’Iran. Uccide con le sue mani, letteralmente, quelli che accusa di essere agenti di Israele. Crea la strategia miliardaria delle gallerie, oltre a essere l’architetto degli orrori del 7 ottobre. Lo disegna con una precisione che arriva persino alle mappe e agli ordini nelle tasche degli assassini con la fascia verde in capo e le motociclette o i pick-up che, sempre secondo i suoi ordini, tornano dalla strage carichi di rapiti e corpi su cui Sinwar ha giocato il suo sporco gioco di ricatti, propaganda, violenze sessuali, sangue, ulteriori uccisioni. Senza avere mai l’intenzione di condurre una vera trattativa per conservare la leva più potente nelle proprie mani. Nel frattempo, teneva sotto il tallone una popolazione nazificata e insieme affamata e violentata da Hamas stesso. Nella testa della cronista torna l’immagine che tutti hanno visto di Sinwar coi suoi bambini che tengono già un mitra in mano mentre lui li vezzeggia, poi l’uomo che cammina nel buio della galleria e davanti i suoi tre bambini che lo precedono nello spostamento. Povere creature, quando si pensa alla reazione del suo collega adesso anche lui all’Inferno, Ismail Haniyeh, quando raggiunto dalla notizia della morte dei suoi figli non ha alzato un sopracciglio. «Amiamo la morte più della vita» ripetevano ambedue, ed eccoli accontentati.

Adesso, cambia lo spettacolo, difficile per Hamas in stato comatoso trovare un successore, si aprono le strade per Gaza, oltre alla crisi militare evidente di Hamas c’è anche una crisi politica che deve suggerire la capacità di Israele di gestire la sua guerra di sopravvivenza, come ha saputo farlo con Nasrallah. Certamente l’Iran guarda, speriamo che sappia dare buoni consigli a chi ha in mano i rapiti. E che in generale si renda conto che Israele ha tutte le intenzioni di vincere la guerra. L’idea di una guerra totale, ora che Hamas e Hezbollah sono senza testa, è molto meno robusta.

Per inviare la propria opinione al Giornale, telefonare: 02/85661, oppure cliccare sulla e-mail sottostante 

segreteria@ilgiornale.it